venerdì 13 dicembre 2013

Recensione del mio libro

Ho realizzato solo ora di non avere ancora linkato sul blog l'ottima recensione di Il demone di Alessandro realizzata dallo staff della booksprint edizioni...beh eccola, leggetela se non l'avete ancora fatto!!


http://blog.booksprintedizioni.it/area-press/comunicati-stampa/item/406-la-ragazza-e-il-demone

venerdì 6 settembre 2013

Ecco un secondo racconto riguardante lo stesso contest, miscelato con il tema zombie perchè si sa, i non morti stanno bene un po' ovunque, tranne che nel giardino di casa...buona lettura!




Sono un vile

Tenendosi costantemente a contatto con la parete del muro alla sua destra, Mario P., trentaduenne ex idraulico confinato da otto mesi nell'ospedale psichiatrico di Monza, giunse cautamente nella sala da pranzo, non mancando, né mai l'aveva fatto, di gettare un'occhiata ancora una volta in tutte le direzioni, alle finestre, alle porte e poi ancora alle finestre.
«Mariano Mariano...» esordì un ometto eccessivamente magro, ancora imberbe nonostante avesse ormai superato da anni la soglia della pubertà e con un paio di occhiali perennemente appannati «niente zombie anche oggi, mi spiace! Niente vampiri, niente demoni, nessun mostro pronto a entrare in questo covo di pazzi, quindi perchè non ti rilassi, non ti siedi e aspetti che venga servito a tutti lo stufato con il coniglio della vecchia Rita? Ah, una delle poche cose che mi mancheranno di questo posto...»
«Io m mi chiamo M Ma Mario!» protestò l'uomo, la cui balbuzienza era notevolmente peggiorata durante i lunghi mesi di soggiorno in quel luogo.
«Si, certo, certo...ma Mariano mi diverte di più! E ora siediti, che non ho tutto il giorno, e devo anche assicurarmi che Max Tentenna non rovesci ancora il suo vassoio...» disse riferendosi a un altro paziente allegramente rinominato con un nomignolo capace di divertirlo.
Mario obbedì subito, prendendo posto al tavolino posto esattamente al centro della stanza: Danny, lo stagista infermiere, era una persona malvagia, lo prendeva continuamente in giro, ma lui era l'unico, tra tutte le persone là dentro, che non si sarebbe trovato impreparato nel corso dell'imminente apocalisse zombie. Perchè quest'ultima era inevitabile, di questo Mario ne era assolutamente convinto. Aveva passato anni, a casa, accumulando scorte su scorte, erigendo muretti e tramezze, attivando trappole e allarmi. Questo fino a quando la sorella maggiore decise di farlo rinchiudere li dentro, di appropriarsi della casa che era stata dei loro genitori e di venderla a un ricco impresario ossessionato dai possibili furti che poteva subire. Per Mario fu un incubo. La prima cosa che fece non appena la stanza 4 del corridoio B divenne la sua nuova dimora fu studiarne la posizione: quali erano gli ingressi, quali le possibili via di fuga, quale fosse la capienza di cassetti e armadi... Poi provò a immagazzinare tutto ciò che gli era possibile, raccogliendo qualsiasi avanzo, ogni straccio, ogni giornale e ogni singola cianfrusaglia sulla quale riusciva a mettere le mani. A un certo punto, però, si imbattè in Danny. Non si trattava solo di un ragazzo cattivo come quei tanti che aveva incontrato nella sua vita, Danny si divertiva a enfatizzare le paure degli altri, li derideva e punzecchiava, facendo tutto questo a scopo terapeutico, diceva, per esorcizzare la paura. Mario lo odiava. Per fortuna, però, quello era l'ultimo giorno per Danny: il suo periodo di stage era finito.
Con questo pensiero in testa Mario gustò con gioia lo stufato, divorò le patate di contorno e, dopo l'ora e mezza trascorsa nella sala comune, si apprestò felicemente a ritornare nella sua stanza, ovviamente badando sempre che nessun rumore potesse fornirgli il minimo sospetto di essere seguito. Lui era sempre stato tranquillo, non aveva mai dato problemi, e i medici non avevano assegnato nessuno al controllo della sua persona: semplicemente, alle ore 22.00, sarebbe dovuto passare l'infermiere a chiedergli se andava tutto bene, e lui avrebbe risposto di si, e che stava per mettersi a dormire.
Quella sera, come sempre, proseguì nella rilettura dei suoi libri preferiti: Manuale per sopravvivere agli zombie, Guida all'Apocalisse Z, Manuale di sopravvivenza urbana, smettendo di leggere esattamente a un quarto alle dieci, in modo da rielaborare quanto aveva letto per poi dormire pochi minuti dopo il controllo, evitando così di stare troppo sveglio la notte, oscura e piena di terrori.
Inaspettatamente, alle 22.05 ancora nessuno era passato. Era piuttosto strano, ma la cosa non lo preoccupò. Attese altri dieci minuti e ancora niente. Ora era un po' agitato, nella sua mente iniziavano a farsi strada ipotesi fantasiose, ma per la sua psiche decisamente non improbabili. Altri 15 minuti, e Mario, oramai ridotto a un fascio di nervi, udì un rumore, un rumore forte, chiaro, come se qualcuno avesse tirato un calcio alla sua porta. In quel momento ogni sua paranoia divenne certezza, avrebbe voluto urlare al suo psicologo che era tutto vero, che quella sua convinzione era reale, anche se in verità non aveva verificato nulla. Era solo un rumore. Con la forza della curiosità più che del coraggio percorse i pochi passi che lo separavano dalla porta, si chinò all'altezza della feritoia per il passaggio del cibo di cui era dotata e vi appoggiò contro una mano, in attesa. Avrebbe dovuto gettare uno sguardo dall'altra parte, ma non poteva, non ne era capace, terrorizzato com'era all'idea che tutte le sue paure potessero concretizzarsi. Attese ancora qualche minuto, durante i quali gli parve di sentire ognuno dei rumori che tanto temeva: passi strascicati, vetri sfondati, grida di terrore. Solo dopo alcuni istanti di assoluto silenzio si decise a sollevare impercettibilmente la feritoia, ruotando il collo fino ad avere una sottile visione del mondo al di la della sua stanza, non sufficiente però a mostrargli nulla. Sollevò ancora di qualche centimetro la lastra metallica, avvicinò ulteriormente il suo occhio al passaggio creatosi e iniziò a ripetere la sua abituale procedura: un primo sguardo alla sua sinistra, nulla, un'occhiata alla sua destra e...
Ghaah!
Mario cadde pesantemente sul pavimento, gli occhi sbarrati dal terrore, la fronte imperlata di sudore. Uno zombie! Al di là della porta c'era uno zombie, non era una sua illusione! L'aveva anche riconosciuto, si trattava di Danny, l'infermiere. Aveva il volto coperto di sangue, e non appena se l'era trovato di fronte aveva fatto scattare la mascella, emettendo quel terribile grido; anche ora sembrava non darsi pace, picchiando le mani contro la porta, continuando con le sue urla disumane. Mario sapeva che tutto questo sarebbe successo, ma ora era paralizzato dalla paura, incapace di alzarsi, di pianificare una fuga, di reagire. Aveva passato anni a organizzare ogni dettaglio nella sicurezza della sua abitazione, ma ora si trovava in quel maledetto posto e non aveva avuto nè abbastanza tempo nè abbastanza risorse per varare delle soluzioni valide. Ben presto si accorse che le sue emozioni gli avevano già fatto perdere il controllo delle sue funzioni corporali, aumentando a dismisura quel senso di opprimente angoscia che stava velocemente impadronendosi di lui. Tremava, ansimava, sudava. Il suo cuore aveva cominciato a battere all'impazzata, i rumori provenienti dal corridoio sembravano sempre più inquietanti, i cardini della porta più deboli e malmessi. Si accorse che in fondo, anche se in quel momento fosse stato a casa sua, circondato dalle sue provviste, le sue trappole e le sue armi, non sarebbe mai stato pronto, e questo perchè era un vigliacco, un debole, un vinto. Provò a girarsi per raggiungere il letto, desiderando nascondersi sotto le coperte come quando era bambino, ma ancora una volta si accorse di non poterlo fare. Il cuore batteva così forte che si convinse di come la sua gabbia toracica non sarebbe stato in grado di contenerlo. D'un tratto sentì un dolore lancinante nel petto, come un fortissimo crampo al cuore: ansimò, volse ancora uno sguardo in direzione della porta, quindi ricadde sul pavimento, esanime, morendo con la consapevolezza di essere un vile.
Pochi minuti dopo Danny aprì la porta della stanza, rassentandosi il viso dall'abbondante ketchup e dal leggero trucco che aveva usato per preparare quello scherzo, con la collaborazione di colleghi e inservienti, per festeggiare con un po' di sadica goliardia il suo ultimo giorno di stage.
Non avrebbe lavorato come infermiere mai più.









mercoledì 4 settembre 2013

Il ritorno

Dopo molto tempo rieccomi con un nuovo racconto per un contest; il tema? la normalità della vita in manicomio... Eccovelo!


Io non vedo, io non sento


All'attenzione della gentilissima Miss. Wettington, Direttrice dell'Istituto Psichiatrico St. Paul

Direttice carissima,
La prego anzitutto di accettare il modesto omaggio floreale che mi sono permesso di farLe pervenire, per l'infinita gentilezza con la quale mi ha accolto, sia pur temporaneamente, nel Suo istituto. Parlo di un'esperienza temporanea in quanto, come Lei certamente saprà, la mia presenza nella sua struttura non ha ragione di protrarsi per molto tempo ancora: il lieve stato confusionale nel quale mi ero ritrovato a essere è oramai completamente superato, grazie all'efficace confronto con i capacissimi medici sui quali può contare una struttura del livello della St. Paul. Le chiedo, pertanto, una riesamina del mio caso, affinchè gli eccellenti servizi dell'Istituto di cui Lei è a capo possano essere offerti alle persone che più ne necessitino.

Cordialmente,
H.P. Rutheford

Thomas Reed, trentaseienne avvocato del Maine con la sventura di essere stato assegnato d'ufficio al caso del Signor Rutheford, rilesse attentamente quanto egli stesso aveva scritto, nel disperato tentativo di gettare una parvenza di rispettosità, diligenza e ossequiosità laddove il suo assistito altro non mostrava che arroganza, sicurezza e follia. Nemmeno lui sapeva perchè mai avesse preso tanto a cuore quell'uomo, ma al momento aveva deciso di rischiare, facendo passare quella richiesta scritta di suo pugno come una lettera proveniente direttamente dal suo assistito. Non che quest'ultimo non ci avesse provato, anzi, tra le mani di Reed si trovavano ora quasi una dozzina di lettere traboccanti richieste di liberazione, invocazioni a un ritorno a casa, assicurazioni circa la propria sanità mentale. Il problema consisteva nel fatto che H.P. Rutheford, pur non essendo in alcun modo pericoloso per la società -di questo Reed ne era convinto- al momento non poteva assolutamente essere definito come una persona nel pieno controllo delle proprie facoltà mentali. Era stata quell'ultima lettera, quella che aveva stracciato subito dopo averla letta, a convincerlo che quell'uomo doveva ritornarsene nella sua casa, lontano da tutto e tutti, uscendo così definitivamente dalla sua vita. Leggere quelle righe deliranti l'aveva turbato, tanto che le parole di quell'uomo si erano incise nella sua mente nonostante avesse immediatamente ridotto a brandelli i fogli sui quali erano state scritte, al punto da poterle recitare a memoria alla perfezione:

All'attenzione della Signora Wettington, Direttrice dell'Istituto Psichiatrico St. Paul

Signora Wettington, Le scrivo per informarLa dei progressivi e costanti miglioramenti del mio stato di salute, non potendo essere certo che questi dati non Le giungano alterati da alcuna fonte. Le rammento inoltre di come, a dispetto di quanto dichiarato dal personale, io non ho mai richiesto alcun materiale che possa essere considerato "strano": solamente un rosario, per le ore di preghiera, alcune piccole campane dalla mia collezione privata, per l'armonia che il loro suono mi induce, e un sacchetto di sale grosso, il cui effetto, una volta applicato con l'ausilio di impacchi sulla mia zona lombare, è di comprovata efficacia. Un uso diverso da parte mia di questi oggetti scade semplicemente nella congettura. Mi trovo inoltre costretto a segnalare la facilità di suggestione per la quale si contraddistinguono gli inservienti addetti alla pulizia dell'ala dell'edificio in cui attualmente risiedo, rammaricandomi delle false notizie che costoro possano avere diffuso. Le confermo, dunque, che non vedo alcuna ombra, la notte, nella mia stanza, né tantomeno vi comunico in alcun modo. Le urla che taluni dichiarano di aver sentito nel cuore della notte non sono altro che l'amplificazione e l'esagerazione dell'effetto di alcuni incubi avuti recentemente a causa della tensione accumulata per l'eccessivo stress dovuto a questa situazione. Non vedo ombre nascondersi negli angoli bui della mia stanza, non le vedo strisciare fuori con esasperante lentezza, nè osservo con orrore le loro lunghe dita tendersi fino ad afferrarmi. Non sento il loro respiro dietro al mio orecchio, non percepisco il nero livore per il cuore che mi batte nel petto né la cieca rabbia dovuta alla loro incapacità di ottenere ciò che più desiderano: tutto questo non è che parte dei miei incubi, e il mio rammarico consiste nell'essermi confidato con persone tanto infantili da avere diffuso simili sciocchezze come parte di un'esperienza reale da me vissuta. Le ripeto, io non vedo mostri, nè ombre o demoni, non ne sono ossessionato al punto di richiederLe certi oggetti nella convinzione che essi possano proteggermi contro queste creature di fatto inesistenti, tranne che nei miei incubi.

Fiducioso nelle Sue capacità di valutazione,
e ringraziandoLa per il suo tempo,
H.P. Rutheford

Per Rutheford, Reed lo sapeva, le ombre erano più che mai reali e le sue grida, nella notte, avevano qualcosa di terrificante. Quello che più aveva spaventato l'avvocato era uno stralcio di foglio che lo stesso Rutheford si era premurato di barrare affinchè non venisse inserito nella lettera alla direttrice dell'ospedale psichiatrico, forse in un raro lampo di lucidità. Raccontava nei minimi dettagli un sogno che dichiarava di avere fatto, chiedendo alla Wettington di aiutarlo nella sua interpretazione, confidando nelle sue capacità. Reed lo teneva ancora tra le mani, rabbrividendo nell'immaginare come Rutheford avesse vissuto quell'esperienza, provando, per un secondo appena, a viverla sulla sua pelle.

Questa sera, dopo la porzione di ottimo stufato servito dalla Señora Maria, ho avvertito un lieve giramento di capo, provvedendo a coricarmi anzitempo, fatto a cui riconduco il sonno animato da incubi che ne è conseguito. Dal momento in cui incubi di tale risma sono frequentissimi, Le vorrei chiedere una sua interpretazione al riguardo, un confronto per cercare in queste proiezioni illusorie i veri problemi per cui, nel recente passato, una cattiva gestione dello stress mi ha portato ad essere temporaneamente ospite del suo Istituto. Dopo pochi minuti, così almeno mi è parso, iniziai a sentire gli occhi molto, molto pesanti, eppure mi rifiutavo di cedere al sonno. Notai allora delle difformità nelle ombre proiettate dalle luci delle pareti, ombre che sembravano allungarsi e poi restringersi come se ogni oggetto (la lampada, l'orologio, la tenda..) venisse scosso da un forte vento, creando una moltitudine di onde nere, molto più scure di quanto le ombre mi apparivano solo pochi istanti prima. Tutte queste difformità createsi iniziarono poi a sciamare in un unico punto, riversandosi sulla parete opposta, formando prima un cerchio, poi qualcosa di simile a una forma, senza che la si potesse definire tale, ad ogni modo. Questa figura -la definisco figura per aiutarla a comprendere meglio il mio caso- iniziò gradualmente a espandersi, fino a invadere le pareti laterali e il soffitto, e a un certo punto iniziò a respirare. Dico respirare, ma non si trattava di un respiro vero e proprio, era qualcosa di strozzato e sgraziato, di fetido pur essendo inodore. L'ombra iniziò a discendere su di me, aumentando l'intensità di quell'aberrazione che in precedenza ho chiamato respiro, e vidi distintamente 2 mani, scarne e putride, allungarsi in direzione del mio petto, divenendo solide rispetto alle ombre che prima erano e allora si, allora ho urlato, al culmine dell'incubo, risvegliandomi in un letto di sudore, sentendo sulla mia pelle il contatto con quelle mani fredde, sul mio collo la condensa del suo respiro.

Rutheford non concludeva questo racconto con la richiesta di un aiuto, lo troncava e basta, barrandolo in seguito affinchè Reed capisse di non doverlo fare arrivare alla direttice, anche se era solo la storia di un incubo. Questo perchè l'uomo dichiarava che era solo un brutto sogno che si ripeteva, perchè dichiarava di non vedere, di non sentire, ma Reed sapeva.
Rutheford vedeva.
Rutheford sentiva.




 

lunedì 10 giugno 2013

Nuovo racconto scritto per un contest a tema fantasy, con il ritorno del bambino immerso nelle paranoie delle campagne pugliesi...a presto per qualcosa a tema un po' più libero!




Pasto o progenie


«Mi raccomando caro, non dare problemi ai nonni, ascoltali e non dimenticarti dei compiti delle vacanze, intesi? Ah e non esagerare con i dolci che ti farà la nonna, lo sai che se ne mangi troppi poi stai male. E...»
«Ma si mamma, si, d'accordo! Guarda che non sono più un bambino!» sbottò Francesco, nell'esuberanza dei suoi 13 anni.
«Lo so tesoro, lo so: per questo io e il nonno abbiamo deciso che quest'anno lo aiuterai in campagna, e se farai un buon lavoro quando tornerai a casa tra 2 mesi potresti trovare quel gioco che volevi, quella x qualcosa...beh papà lo sa come si chiama quell'affare...ma, ripeto, solo se il nonno mi dirà che sei stato bravo...»
«Davvero? Grazie mamma, grazie!» Esultò Francesco, come se la console già lo attendesse a casa, dopo quei mesi estivi passati dai nonni materni in Puglia, e gli fosse già lecito fantasticare su quali giochi acquistare e quali altri avrebbe potuto farsi prestare dai cugini.
Il resto del viaggio Francesco lo trascorse proseguendo nelle sue fantasticherie e solo parzialmente ricordandosi i suoi doveri: anche oziando per la maggior parte del tempo, pensò, la mancanza di amici e intrattenimenti (i nonni non avevano neppure la televisione) lo avrebbero costretto a dedicare almeno un paio d'ore al giorno agli odiatissimi compiti delle vacanze. Trascorse le quasi 3 ore necessarie per raggiungere il paesino dei nonni sito nello sperduto entroterra foggiano, Francesco si riscosse da quel costante senso di sonnolenza che abitualmente trasmettono i lunghi viaggi in auto, aprì la portiera e respirò a pieni polmoni quell'aria così salutare, a detta di tutti, tanto da assicurare una così lunga vita a tutti gli abitanti del paesino, noto per la loro longevità. Vide presto una porticina aprirsi a pochi metri da lui, dietro la quale apparirono la figura di un uomo alto e magro, con un bel paio di baffi bianchi e un cappello di stoffa in testa a nascondere la calvizia, e quella di una donna bassa, piegata dall'età e costretta a servirsi di un bastone per muoversi, ma con un volto ancora tanto vitale e caratterizzato da 2 occhi agilissimi, ai quali nulla sfuggiva: i suoi nonni.
«Francesco!» esclamarono all'unisono vedendolo, non trattenendosi dal dispensargli carezze, pizzicotti e baci sulle guance.
Francesco subì l'attacco senza protestare -a che sarebbe servito?- attendendo con pazienza che l'attenzione dei nonni si spostasse dal nipotino alla figlia, ottenendo finalmente una tregua. Dopo essere entrati in casa, aver mangiato abbondantemente mentre sua mamma parlava con i nonni ed essersi concesso un riposino, Francesco venne infine risvegliato dal saluto della madre, pronta a ripartire per tornare a casa prima dell'imbrunire, ma non prima di avergli ribadito le solite raccomandazioni. Quando se ne andò Francesco scoprì che anche il suo relax era terminato, o almeno stava per farlo: il nonno gli aveva annunciato che l'indomani sarebbe dovuto andare in campagna insieme a lui, per aiutarlo nella raccolta delle olive. Lui cercò di rimandare, di ricordare ai nonni che in fondo era appena arrivato, ma il nonno fu irremovibile: era il periodo giusto per la raccolta, e aiutarlo nell'operazione era uno dei lavori più adatti per un bambino della sua età, così che Francesco non potè fare altro che arrendersi, e prepararsi alla levataccia del giorno dopo.
Quel mattino la sveglia suonò alle 5 e mezza per Francesco, anzi, non fu esattamente la sveglia a costringerlo ad alzarsi, ma la voce inamovibile del nonno, il quale non gli diede nemmeno il tempo di fare colazione: «Pane con un pezzo di formaggio mentre camminiamo» gli disse «come è sempre stato.»
Con passo incerto Francesco si preparò a sostenere le lunghe falcate del nonno, avvezzo da tutta una vita a fare quel percorso di circa 5 chilometri tutte le mattine, più altri 5 la sera, dopo un'intera giornata di duro lavoro nei campi.
«Da quanti anni la nonna non ti accompagna più in campagna?» domandò sperando di fiaccare il suo ritmo con un po' di conversazione.
«Mmh...4 anni...»
«Farai fatica, tutto da solo...» commentò Francesco, sperando di costringere il nonno a qualcosa di più articolato come risposta.
«No, non sono solo: c'è il pecoraio che mi da una mano quando serve, in cambio del permesso di attraversare le mie terre con le sue pecore. Per il resto, anche quando la nonna stava bene, ero sempre io a fare i lavori più pesanti, ci sono abituato.» fece lui.
«Il pecoraio?!» esclamò Francesco, stupefatto, ricordandosi di quella figura quasi grottesca, grande e opulenta, con quella barba folta e nera, quelle sopracciglia spesse e minacciose e quella voce profonda che tanto timore era capace di trasmettergli, le poche volte che lo aveva incontrato.
«Siamo d'accordo per diversi affari: io compro da lui il cacio, lui prende da me i conigli, e così via. Oggi ci sarà anche lui a darci una mano, in cambio di qualche bottigli d'olio d'oliva.» Spiegò il nonno.
Francesco rimase in silenzio, non osando dire al nonno di quanto il pecoraio lo mettesse a disagio, sapendo che l'avrebbe certamente sgridato, dicendogli di non giudicare le persone dal loro aspetto, che non era certo un uomo abituato a trattare con i bambini e altre cose ancora. Forse il nonno aveva ragione, ma quell'uomo a lui metteva i brividi, e non c'era nulla che potesse fare per evitarlo.
Camminarono a lungo, e mentre il nonno procedeva rapido, Francesco arrancava, fino a che non si ritrovà costretto a chiedere una pausa, per riprendere fiato e dare un momento di tregua ai suoi piedi doloranti, attirandosi un sorriso beffardo da parte del vegliardo.
«Senti nonno...ma il pecoraio sa che oggi ci sarò anche io con voi?» Domandò dopo aver ripreso un po' di fiato.
«Mmh? Si, si...A dire il vero è stata una sua idea...» rispose.
«Come una sua idea? Che intendi dire?»
«Qualche tempo fa stavamo lavorando insieme nei campi e gli ho parlato del fatto che quest'anno tua mamma voleva che ti facessi lavorare un po', dato che hai già una certa età, e lui mi ha suggerito di fatri partecipare alla raccolta delle olive...si ricordava di te, e anch'io ero d'accordo con lui di non poterti mettere a zappare o a tagliare la legna...sei un ragazzo di città, per certi lavori non sei portato...» concluse il nonno.
Francesco non sapeva se ritenersi maggiormente offeso dal fatto che un semisconosciuto avesse pianificato il suo lavoro estivo o dall'insulto velato del nonno nei confronti della sua forma fisica: certo non era cresciuto a pane e pomodoro macinando inoltre chilometri su chilometri per andare ad aiutare con i lavori nei campi come aveva fatto suo nonno, ma erano altri tempi.
«Avanti. Forza che siamo quasi arrivati.» Sentenziò il nonno mettendo fine alla sua pausa.
Così il cammino riprese. Poco dopo giunsero a una deviazione sul sentiero principale, si inerpicarono su uno stretto viottolo in salita, e infine arrivarono alla destinazione: uno sgangherato capanno, che il nonno chiamava masseria, circondato da maestosi ulivi carichi di frutto.
«Eccoci! Oh compare!» esclamò il nonno alla vista di una figura che fino a quel momento sembrava celata tra gli alberi e l'erba bruciata dal sole: il pecoraio.
«Ricordi mio nipote Francesco, si...ma non perdiamo tempo, gli ulivi sono pieni quest'anno, belli pieni, e da fare ce n'è...vieni Francesco, prendi questo cesto e raccogli quanto più riesci dai rami a cui arrivi, al resto pensiamo noi...via via!» disse il nonno in preda a una fastidiosa vitalità.
Francesco eseguì gli ordini, raccolse la cesta e iniziò a lavorare, ma non perse mai di vista il pecoraio, coltivando per tutto il tempo la convinzione che lo stesse anch'egli a sua volta osservando. Non gli piaceva, non gli piaceva per niente. Praticamente non parlava, -neppure il nonno, comunque, il quale badava solo a lavorare- ma ogni tanto emetteva un rumore, facendo schioccare la lingua sul palato, capace di fargli saltare i nervi. Non sapeva il perchè covasse questo astio nei confronti dell'uomo, ma era come una specie di direttiva inconscia del suo cervello, un input che gli ordinava di diffidare, osservare ed evitare. Passò diverse ore in quel modo, lavorando e osservando, sudando e immaginando.
Sapeva che il pecoraio non era un uomo sposato, che era più vecchio di suo nonno anche se non lo dimostrava per niente, con quella barba e quei capelli neri e abbondanti, che aveva una casa in paese, non lontana da quella dei suoi nonni, ma che spesso dormiva nella sua masseria, non molto diversa da quella del nonno, ovvero scomoda e isolata, con un pagliericcio pensato più che altro per un breve riposo dopo una mattinata di duro lavoro. Da questi dati elaborò diverse teorie, condite dalla sconfinata fantasia di cui tanto andava fiero, e tra tutte si concentrò su quella del brigante: la nonna gli aveva raccontato tante storie su di loro, ce ne erano di buoni e di cattivi, ma quelli cattivi erano terribili, e i nomi di Crocco, Chiavone, Mammone, Bizzarro e Fra'Diavolo ancora lo tenevano sveglio, la notte, ripensando alle terribili storie su di loro che aveva sentito.
Fossero stati altri tempi, Francesco si sarebbe detto sicuro che il pecoraio fosse in realtà un brigante. Se lo immaginava -eccome se se lo immaginava- a nascondere tesori nelle bare gettando via i cadaveri, a mangiare carne cruda insieme ai diavoli, a bere vino dal teschio dei rivali uccisi dopo averli aperti da parte a parte con un coltellaccio simile a quello che portava attaccato alla cintura. E poi, ancora, a cuocere le teste per ricavarne i teschi, ricavandone un'oscena poltiglia da dare in pasto ai suoi cani, ai suoi 2 enormi cani lupo dal pelo lucido, tanto docili ai suoi comandi. Improvvisamente Francesco trattenne a stento un conato di vomito, domandandosi da dove potessero provenire dei pensieri tanto torbidi, quindi alzò lo sguardo, cercando di capire se qualcuno si fosse accorto di quel suo gesto, e vide che il pecoraio lo stava fissando, dritto negli occhi. Si voltò subito, e con maggiore lena si rimise a raccogliere le olive, sforzandosi di ricacciare via quell'immagine del calderone ricolmo di teste umane, e del pecoraio sogghignante con il suo macabro calice ricolmo di vino.
Lavorò come mai, forse aveva fatto nella vita, fermandosi per una breve pausa solo per mangiare qualcosa con il nonno (mentre il pecoraio pranzava nella sua masseria, da li poco distante) e poi riprese a lavorare alacramente, senza perdersi in strane paranoie, fino a pomeriggio inoltrato, mostrando un'energia che lasciò tutti di stucco, lui compreso. Solo a quel punto si fermò, esausto, guardando il nonno con un'espressione allo stesso tempo fiera e supplice: aveva appena guardato l'orologio, e sapeva che mancava poco all'orario prefissato per la ripartenza.
«Inizio a rimettere tutto a posto nonno?» Chiese nella speranza di ricevere un assenso e magari anche dei complimenti per il buon lavoro svolto.
«Eh? No, no...ne parlavo prima con il compare...» fece il nonno «e siamo entrambi d'accordo che sarebbe un peccato smettere adesso, dato che ancora poco e avremmo finito tutto il lavoro...passeremo la notte in masseria, qualcosa da mangiare ce l'abbiamo...»
«Cosa? In masseria? No!» sbottò Francesco, per nulla contento di quella decisione.
«Di che hai paura? Non sai quante volte abbiamo dormito qui io e la nonna...c'è un letto, una coperta...di topi non ce ne sono, che la porta la teniamo sempre chiusa e buchi nei muri non ce ne stanno...tranquillo, c'è il nonno con te: vedrai, ti piacerà passare la notte in campagna!» Esclamò infine il nonno, con un sorriso ineffabile.
Francesco non potè far altro che rassegnarsi a fare come gli veniva detto, chiedendosì però perchè mai il nonno era così influenzato dal pecoraio, quando non lo era mai stato, che lui si ricordasse.
Presto, molto prima di quanto si aspettasse, il tramonto tinse la campagna di tutti quei colori che non era possibile vedere in città, varie sfumature di arancio, rosso e blu sospese sopra al colore ramato dei campi.
Dovevano essere circa le 21, e Francesco si ritrovò improvvisamente stanco e affamato. Entrò nella masseria quasi senza accorgersene, frugando in quegli angoli dove sapeva che il nonno conservava barattoli pieni di fichi secchi, e ne divorò a piene mani, senza ritegno: il lavoro era stato molto più duro di quanto immaginava, ma almeno aveva dimostrato a suo nonno che poteva farcela, e questo bastava a renderlo orgoglioso e fiero. Ai fichi seguirono dei pomodori sott'olio, un po' di formaggio e del pane raffermo, ma non si poteva pretendere, dopo di che non ci fu nemmeno il tempo di fare conversazione, tale era la stanchezza. Il nonno ebbe l'accortezza di scuotere accuratamente le coperte, assicurandosi che non vi fossero annidiati degli scarafaggi o, peggio, degli scorpioni, quindi invitò il nipote a dormire: l'indomani si sarebbero alzati alle prime luci dell'alba, per terminare definitivamente il lavoro e tornare a casa per pranzo. Francesco si coricò a fianco del nonno, scegliendo il lato più vicino al largo finestrone, provando ad addormentarsi fissando il chiarore della luna.
Chiarore di luna piena.
Non riuscii ad addormentarsi subito: la scomodità del pagliericcio, il respiro pesante del nonno, la stranezza di trovarsi a dormire in mezzo alla campagna e non nel suo letto, come la sera prima, eppure il vero problema era un altro: la luna. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella sfera che mai neela vita gli era sembrata tanto grande, tanto magnetica. Era disteso su un pagliericcio di una masseria di campagna, ma provava la sensazione di trovarsi altrove, perfino di sentire degli ululati perdersi nella notte, come se si trovasse dentro a un film. Poi gli ululati si fuserò in uno solo, profondo e distinto, inequivocabile. Per un momento, solo per un attimo, Francesco si irrigidì nelle coperte, ma, inaspettatamente, non provò paura: un ululato squarciava la notte, la fonte poteva essere soltanto a pochi chilometri dal suo letto, eppure lui non aveva la benchè minima paura. E questo era strano, molto strano: la paura solitamente si impossessava di lui con estrema facilità.
L'ululato saliva e scendeva di tono, e ora era vicino, vicinissimo: il lupo si stava muovendo. Francesco continuava a fissare la luna, rapito da un magnetismo mai provato, e quasi non si accorse del rapido movimento, della figura che in un lampo passò davanti alla finestra, più rapida di un qualsiasi animale. Solo una sensazione distante di quel passaggio venne colto dai suoi sensi, ma tanto bastò a mettere in moto la sua fantasia: cos'era? Poteva davvero essere un lupo? E se così era, perchè il pecoraio non si era precipitato alla masseria per avvisare il nonno? Si voltò cercando la sua figura confortante, desiderando scuoterlo e svegliarlo, anche se lo avrebbe certamente rimproverato, ma non vi riuscì. O meglio, riuscì a voltarsi, ma le braccia rimasero immobili, la bocca serrata: era come paralizzato. Rigirò ancora il collo da una parte all'altra, chiedendosi se forse stava semplicemente sognando, uno di quei sogni strani in cui si è bloccati da qualche parte o si cade nel vuoto, eppure non gli sembrava di essersi mai addormentato quella notte. L'ululato nel frattempo era ripreso, con ancora maggiore intensità: sembrava che il lupo si fosse piazzato esattamente al di là della porta, ma, ancora, lui non aveva paura, non riusciva ad averne. Poi accadde qualcosa di ancora più strano: l'ululato iniziò ad attirarlo a sé. Dapprima realizzò semplicemente di essere in preda a un'inconsueta curiosità, poi questa sensazione si intensificò fino a diventare insopportabile brama di alzarsi dal letto, e così fece, non potendovi più resistere. Camminò con un passò ritmato, meccanico, quasi come se fosse sotto l'influsso di una malia, fino alla porta, poi strinse la chiave tra il pollice e l'indice e la ruotò fino a far scattare la serratura. Ebbe un attimo di esitazione, poi la spinse, mentre una ventata dell'aria fresca della notte lo colpiva sul viso.
Ciò che vide lo lasciò senza fiato. A pochi metri, accanto all'ulivo più vecchio della proprietà, si ergeva una creatura enorme, ritta sulle zampe, con un manto argenteo che sembrava catturare i raggi lunari, il volto di un lupo e gli occhi di un falco. Appena lo vide la creatura ululò nella notte, e a Francesco parve impossibile che il nonno non si svegliasse, eppure non sentì alcuna voce dall'interno della masseria: doveva essere qualcosa di magico che non poteva comprendere a fare dormire il nonno, e quel qualcosa proveniva da quella creatura.
Un lupo mannaro. Il pecoraio. Doveva essere lui. Non era dunque un brigante, non era uno di quegli uomini che nei racconti della nonna razziavano i villaggi, violentavano le donne e si mangiavano i bambini. Era peggio, molto peggio. Era consapevole di tutto questo, sapeva che quella figura non sarebbe dovuta esistere eppure si trovava di fronte a lui, forte e selvaggia, sapeva che avrebbe dovuto tremare di terrore, eppure non riusciva a farlo. Non riusciva a provare paura.
Il suo corpo iniziò ad avanzare verso l'enorme licantropo che ululava alla luna, e ancora questa sensazione non riusciva a manifestarsi. Solo 2 concetti riuscivano ad attraversagli la mente: sarò per lui pasto o progenie?
Un passo
Pasto o progenie?
Ancora un passo
Pasto o progenie?
Ancora un ultimo
Pasto o...

giovedì 23 maggio 2013

Eccoci con un nuovo racconto scritto per un contest a tema fantasy...questa volta si parla di folletti! A voi...



In un vortice d'ali


«Ti dico che non l'ha fatto di proposito: potremmo lasciarlo stare, solo per questa volta!»
«Io sono sicuro che l'abbia fatto apposta invece!» Esclamò Puk.
«Non ne hai le prove: per quanto ne sappiamo poteva semplicemente...»
«Cosa? Cercare di distruggere la tana di un tasso? Perchè non lo giustificherebbe Prik, non lo giustificherebbe affatto! Ahi ahi ahi abbiamo un colpevole...» concluse il folletto, certo della colpevolezza del ragazzo.
«Forse non voleva affatto "distruggere", ma era solo...»
«Curioso? Oh certo, era solo curioso, beh allora lasciamo stare, non c'è alcun problema...» esclamò Puk, con ironia.
«Davvero? Per fortuna, grazie Puk, non potevo proprio sopportare l'idea di fargli del male: guarda come dorme beato: questo vecchio tronco per lui già abbastanza come cuscino, e...»
«Dorme perchè siamo stato noi a volerlo addormentato, e non si sveglierà fino a che noi non vorremo che si svegli, ti è chiaro Prik?»
«Ma io...»
«Non volevi farlo? Non sapevi cosa stavi facendo? Mi disgusti. Cosa credi che ti abbia tenuto in vita fino ad ora?»
«Cosa vorresti dire Puk? Non capisco!» Protestò il folletto.
«Sono stato io Prik, è solo merito mio se uno sciocco come te oggi vive ancora! Che fine hanno fatto i nostri fratelli a Colle Artigno? E quelli di Bosco basso? E Sid?»
«Non parlare di Sid.» Ingiunse Prik, fattosi improvvisamente scuro in volto.
«Oh invece te ne parlo, eccome. Noi non possiamo venire scoperti dall'uomo: se questo accade ci trasformiamo subito in una farfalla, così che gli occhi di un umano non possano mai posarsi sul corpo di un folletto. Questa è la regola, in questo consiste l'ammonimento dei padri, e ciascuno di noi ne è a conoscenza. Nonostante ciò Sid credeva che si trattasse soltanto di una leggenda, e volle rivelarsi a quel bambinetto che si era preso tanto a cuore, il figlio di quel pescatore, con quei suoi capelli biondi e quegli occhi curiosi, a cui non mancava mai di fare abboccare all'amo le trote più grasse, badando bene che le prendesse senza farle scappare...»
«So benissimo cos'è successo a Sid. Ora smettila.» Ingiunse ancora Prik, il quale aveva oramai definitivamente abbandonato il consueto sorriso, in favore di un aspetto nuovo, minaccioso, molto più consone al temperamento focoso del fratello.
«Oh no no no, tu non sai. Credi di sapere, ma sono certo che tu abbia dimenticato: poi mi darai ragione, credimi. Lascia che prosegua il mio racconto. Sid aveva preso in simpatia il piccolo, nella giusta stagione lasciava che trovasse funghi e lumache, castagne e bacche, facendo comparire il tutto sul suo sentiero mentre rimaneva nascosto dietro il tronco di un albero.»
«Tutti noi lo facciamo!» Protestò Prik.
«Vero, tutti noi a volte lo facciamo, ma occasionalmente, se ci va, e mai favoriamo per 2 volte la stessa persona. Quelli semmai sono i dispetti, anche se questo rientra più nella mia natura piuttosto che nella tua, ma non di questo voglio parlare. Sid aveva preso così tanto in simpatia il piccolo umano da seguirlo fino a casa, favorendolo ogni volta che poteva...»
«Mentre non avrebbe mai dovuto allontanarsi dalla boscaglia, lo so...» aggiunse Prik.
«Non solo, fratello, non solo! Sid pensò che il bambino sapesse di lui, per via dei troppi piccoli "eventi fortunati" nei quali era incorso, così che ogni giorno crebbe sempre più in lui il desiderio di rivelarsi dando conferma al suo protetto dei quello che aveva supposto, nonostante l'ammonimento che costituisce praticamente l'unica nostra regola!»
«Lui non credeva che fosse vero: pensava si trattasse solamente di una ridicola leggenda!» esclamò Prik, con gli occhi rossi di pianto e i piccoli pugni serrati cercando di reprimere il dolore.
«Non lo era affatto, però. Sid decise di mostrarsi, un giorno, e non appena gli occhi del bambino si incrociarono con i suoi si trasformò in farfalla, prima che l'umano potesse essersi reso conto di quanto era successo. Probabilmente gli occhi per quell'attimo gli pizzicarono come se fossero stati colpiti da un granello di polvere portato dal vento, e un istante dopo il nostro Sid gli apparve sottoforma di una farfalla variopinta, la più bella che avesse mai visto...»
«Lo ricordo benissimo, noi...noi...»
«Noi eravamo lì Prik, lo so. So che non puoi avere dimenticato.» affermò infine Puk, appoggiando una mano sulla spalla del fratello «Sid è volato via, battendo le sue ali arancio e nere fino a scomparire dal nostro orizzonte, forse conscio del suo nuovo status, forse no. Abbiamo interrogato il vento, chiesto di lui alla terra e al corso dei fiumi, ma è scomparso, dimenticato dalla natura stessa come se non ne avesse mai fatto parte. Il suo ricordo si è ovunque perduto nell'oblio, tranne che nella nostra memoria.»
Prik non riuscì a rispondere al fratello, non subito almeno. Prima cercò invano qualcosa nelle tasche lacere dei suoi braghini di tela consunti da innumerevoli anni di onorato servizio, quindi si risolse ad usare le morbide ciocche della sua folta barba canuta per ripulirsi il viso dalle lacrime che oramai avevano smesso di cadere, lasciando posto soltanto a un'infinita tristezza. A quel punto si mise a sedere, sopra al grosso masso dal quale fino a quel momento lui e il fratello stavano osservando il regolare e ritmato respiro di quel giovane umano addormentato. Quanti anni poteva avere? 14? 16? Lui non era molto bravo a riconoscere l'età degli umani. Eppure quel ragazzo gli piaceva, anche lui era biondo e pieno di vitalità, proprio come il bambino che era costato la vita al suo amico Sid.
«Perchè mi hai costretto a ricordare, fratello?» Si decise infine a domandare.
«L'ho fatto per te, Prik. Questo ragazzo umano somiglia a quel bambino, vero? So che eri buon amico di Sid, so che con lui condividevi molto più di ciò che hai mai condiviso con me, ma è normale, è la nostra natura, noi siamo fratelli, e quindi...»
«Siamo come acqua e roccia, come tramonto e aurora. Lo ricordo, lo diceva sempre nostro padre.» Disse Prik concludendo la frase del fratello, ma ignorando dove questi volesse andare a parare.
«Sai dunque che è normale essere tanto diversi, e tu hai sempre trovato affinità con Sid e non con me, hai sempre percorso le sue orme e non le mie, nonostante io sia tuo fratello maggiore, ma te lo ripeto, è normale, anche nostro padre lo sapeva. Mi preoccupa però una cosa...»
«Dimmi cosa e smettila di girarci intorno allora! Cosa vuoi dirmi? Cosa?»
Prik aveva urlato la sua rabbia a piene mani, afferrando il fratello per le spalle, scuotendolo per cercare di mettere fine a quel tuffo forzato in ricordi per lui tanto dolorosi senza che ne avesse ancora compreso il motivo.
«Hai agito con lui nello stesso modo in cui avrebbe fatto Sid.» Disse Puk indicando il ragazzo addormentato grazie alle loro arti magiche «Anche Sid avrebbe finto di non capire che se un umano cerca di distruggere un nido, qualsiasi creatura vi ci abiti, lo fa per malvagità e non per curiosità. Gli umani sono gli unici ad avere questa prerogativa, e ne abusano più di quanto né tu né lui abbiate mai compreso: loro sono malvagità. E sono anche arroganza, avidità, prepotenza...»
«Non è questo che vuoi dirmi: ti ho chiesto di smetterla di girarci intorno. Smettila e dimmi quello che volevi dirmi davvero, e dimmelo ora.» Sentenziò un Prik trasformato dalla furia, quasi mostrasse le nerborute braccia del fratello, insolite per un folletto, piuttosto delle sue gracili membra che non avrebbero saputo spaventare nemmeno uno scoiattolo.
«D'accordo Prik, d'accordo, ora te lo dirò chiaramente: ti sei mostrato troppo indulgente con questo ragazzo, sospetto che ti riporti alla mente il ricordo di Sid e del bambino che tanto aveva preso a cuore, e infine temo che tu possa decidere di mostrarti a questo ragazzo, per trasformarti anche tu in farfalla e seguire la sorte dell'amico a cui tanto eri legato!» Esclamo Puk d'un fiato.
Prik osservò il fratello incredulo: erano davvero questi i suoi timori? Perchè mai avrebbe dovuto decidere di porre volontariamente fine ai suoi futuri secoli da folletto per convertirli in giorni da lepidottero? Puk non l'aveva forse visto tremare di paura mentre il ragazzo allargava con le mani la loro tana estiva fino quasi a distruggerla? E aveva forse già dimenticato che era stata sua l'idea di far calare su di lui un'ombra di sonnolenza non appena il ragazzo si era allontanato per cercare un bastone che potesse aiutarlo nel lavoro di smembramento della loro dimora? No, non poteva! E allora perchè, per quale motivo Puk poteva avere potuto pensare che...
Una scarica elettrica attraversò i suoi pensieri: se quel ragazzo stava distruggendo la loro tana, terrorizzandolo per sua stessa ammissione, allora perchè fino a pochi minuti prima stava prendendo le sue difese? Come aveva potuto dichiarare a se stesso che quel ragazzo gli piaceva, quando in realtà lo terrorizzava? Era estremamente confuso al riguardo, né ricordava il momento in cui era avvenuto questo cambio d'atteggiamento nei confronti dell'umano.
«É stato il ricordo di Sid.» Spiegò Puk come se gli leggesse nella mente «Quando hai visto il ragazzo addormentato sei rimasto silenzioso per qualche minuto, poi hai iniziato a blaterare qualcosa su come non avesse fatto apposta e non fosse veramente cattivo, su come fosse solo semplice e innocente curiosità o addirittura ardore nel voler affrontare e sgominare quella che per lui e i suoi simili potesse rappresentare una possibile minaccia, come un serpente o un feroce predatore. Nonostante la tua bontà, però, la faccenda mi sembrava strana: all'interno della tana avevi paura, e ora ti rifiutavi di voler punire l'umano con il "pungiglione", anche se mi ero assunto io il compito di farlo per evitarti lo sforzo e il fastidio.»
Prik riflettè ualche istante come a cercare delle incongruenze nella storia, eppure tutto gli parve più che plausibile: da un momento all'altro era passato dalla paura a una volontà di proteggere il ragazzo che non sapeva comprendere.
«Non preoccuparti, ora lascia che sia io a occuparmi di tutto.» Dichiarò Puk, balzando giù dal masso con grande agilità.
«Ma...fratello...»
«Tranquillo, non gli farò nulla di male. Non troppo male, almeno.»
Così dicendo Puk avanzò fino a raggiungere il braccio disteso del ragazzo addormentato, vi si arrampicò e ne raggiunse il petto, lo ispezionò come se fosse poco avvezzo alla fisionomia umana -in realtà non così dissimile dalla sua- e quindì levò il braccio destro al cielo, mormorando alcune parole nell'antica lingua, quella degli elfi che ormai da secoli avevano abbandonato il loro mondo. Immediatamente il suo bracciò iniziò a produrre una sostanza simile a del fumo, poi diede come l'impressione di vorticare impetuosamente, quindi mutò forma, divenendo, appena dopo il gomito, in tutto e per tutto simile al pungiglione di un insetto, nero e minaccioso.
«Ora pungerò il ragazzo umano, Prik» disse Puk con la fronte adida di sudore per lo sforzo magico compiuto «e insieme al dolore istillerò il doloroso ricordo della puntura di un calabrone avvenuta oggi, mentre cercava di distruggere la nostra tana. Questo dovrebbe bastare per spingerlo a non provare più ad avvicinarsi a un qualsiasi pertugio che potrebbe essere una tana e ospitare lo stesso insetto capace di procurargli una ferita per la quale soffrirà ancora persino dopo anni.»
«Tutto avverrà nella sua mente...»
«Esatto Prik, nella sua mente. Debole mente umana...» e così dicendo Puk si apprestò a colpire il corpo del ragazzo tra la carotide e la spalla, non mancando di concentrarsi sugli esatti ricordi e sulle sensazioni che intendeva trasmettere attraverso quel temporaneo pungiglione innestato sul suo braccio.
Prik nel frattempo non poteva fare a meno di ripensare alle ultime parole del fratello: se la mente umana era debole, e certamente lo era, allora quale nefasto torpore avvolgeva la sua? Possibile che fosse bastato un ricordo, e un'associazione, per fargli perdere la consapevolezza di mutare i suoi propositi? Sid...sarebbe potuta sembrare una sua magia, leggera e irrintracciabile, sottile e ben congegnata. Eppure non poteva esserlo, il suo amico non esisteva più, non nella sua forma, almeno, ma nemmeno nella sostanza: era certo che nello stesso istante in cui si era mutato in insetto fosse morto, o divenuto inconsapevole di chi fosse, convinto di essere farfalla e di non aver altro scopo al di là del posarsi di fiore in fiore.
«Aspetta!» Urlò improvvisamente a Puk un istante prima che vibrasse il colpo.
«Eh? Cosa c'è Prik?»
«Devo...farlo io.» Sussurrò, tanto lievemente che il fratello dovette urlare per farsi ripetere la sua risposta, che tuttavia rimase immutata: voleva essere lui a farlo.
Tra l'incredulità di Puk, Prik avanzò arrampicandosi sul braccio del ragazzo esattamente come aveva fatto suo fratello prima di lui, fermandosi al suo fianco, senza dire una parola. Alzò poi il braccio al cielo, pronunciando anch'egli quella manciata di parole nell'antica lingua, quindi apparve lo stesso fumo, lo stesso vorticare, il medesimo, terribile pungiglione.
Il volto di Prik era una maschera di sofferenza: un simile sforzo era per lui snervante, difficilissimo a sostenersi.
Chiuse gli occhi e cercò di visualizzare le esatte sensazioni da trasmettere, mentre Puk ripristinava il proprio braccio alla forma originaria, non cercando minimamente di contenere l'entusiasmo per l'importante decisione presa dal fratello: era tutto sorrisi e occhiate d'intesa.
Prik nel frattempo visualizzò nella propria mente non una, bensì 2, 3, 4 volte l'esatta sequenza delle immagini che avrebbe innestato nella mente del giovane umano: conosceva la tecnica, ma era la prima volta per lui, nè pensava che sarebbe giunta mai, eppure...
Anticipando l'azione che si accingeva a compiere con un ampio respiro, Prik mirò l'esatto punto in cui intendeva colpire, e si accinse a farlo. Nello stesso istante, perà, la sua attenzione fu catturata da qualcos'altro: da una farfalla verde e nera apparsa all'improvviso.
Sid.
Sid.
In quel momento era l'unico concetto a presidio della sua mente.
Non poteva essere che lui, lui doveva aver mantenuto la sua mente, pur costretto in quel corpo d'insetto, non poteva essere altrimenti, ma perché era lì? Perchè ora?
Osservò il volto dell'umano, i suoi capelli biondi, la sua giovane età, sospesa tra quella di un bambino e di un giovane uomo. Possibile che...
«É lo stesso umano.» sentenziò Puk alle sue spalle.
Lo stesso umano...
Prik non era bravo a distinguere gli umani, eppure alle parole del fratello per lui divenne evidente come il ragazzo che aveva davanti a sè fosse lo stesso amato dal suo amico Sid, lo stesso per cui era stato trasformato in farfalla.
I 2 folletti stavano ancora chiedendosi cosa mai volesse significare l'apparizione di Sid, se veramente si trattava di lui come oramai erano convinti che fosse, quando la farfalla iniziò a compiere delle rotazioni più rapide, e inconsuete. Pochi istanti bastarono ai 2 per comprendere che Sid stava utilizzando il suo nuovo corpo per compiere una delle innumerevoli magie che conosceva, e immediatamente una sottile scia polverosa si rese visibile nell'aria intorno a loro, portando tutti loro a starnutire rumorosamente. Anche il ragazzo. Il suo starnuto echeggiò fastidiosamente nelle sensibili orecchie dei folletti, che tremarono e caddero sul suo petto, provarono a rialzarsi ma vennero nuovamente costretti a cadere da un secondo starnuto, ancora più forte del primo.
Il giovane aprì gli occhi, annebbiati e incerti, stropicciandoseli per 2 volte, ignaro di avere 2 folletti sul petto, ma con la sensazione di avere qualche insetto sotto la maglia, per il formicolio causatogli dai loro piccoli piedi.
Puk capì che non c'era un istante da perdere: presto l'umano avrebbe posato il suo sguardo su di loro, trasformandoli in farfalle. Ma perchè Sid voleva che ciò accadesse? Desiderava forse sentirsi meno solo, costringendoli a dividere con lui il suo destino? No, non era possibile, lui l'aveva conosciuto, era una creatura buona, forse anche più buona del fratello. Allora...il suo sguardo cadde sul pungiglione che ancora adornava il braccio del fratello, e immediatamente capì: era per protezione. Sid non voleva che venisse fatto del male al ragazzo, voleva proteggerlo e non sapeva che intenzioni avessero con quel pungiglione: per quanto ne sapeva, potevano anche essere le peggiori, anche se non era questo il caso. Ma a poco gli avrebbe giovato capire esattamente la situazione, se lo sguardo del ragazzo si sarebbe posato sul suo corpo.
Afferrò Prik per un braccio, cercando di trascinarlo nell'impresa disperata di sparire sotto il cumulo di foglie, strisciando tra gli aghi di pino e i rami secchi fino a raggiungere la parte nascosta del masso sul quale erano in precedenza seduti, ma, inaspettatamente, il fratello si oppose come se avesse delle radici conficcate nel petto dell'umano, mostrando una forza che non aveva mai posseduto.
«Io resto, Puk.» Dichiarò con una serenità che lo turbò «Io resto. Ho sempre voluto...»
Prik non terminò mai quella frase: lo sguardo del ragazzo incrociò il suo corpo, il quale in quello stesso istante assunse l'aspetto di una farfalla variopinta, arancio con chiazze rosse e nere, e spiccò il volo mentre Puk tratteneva a stento una lacrima mentre scivolava rapido tra le foglie, rammaricandosi di essere stato veramente fiero del fratello solo e soltanto nel suo ultimo giorno da folletto, e per un'azione che non era nemmeno riuscito a compiere.
Ora Prik era una farfalla, e non percepiva da lui alcun pensiero, eppure, da dietro la roccia dietro cui era riuscito a nascondersi, gli parve felice, in compagnia del suo grande amico al quale aveva voluto tanto ricongiungersi da accettare la trasformazione in insetto, e di quell'umano per cui ora non riusciva nemmeno a provare rabbia, senza capire il perchè.
Li osservò ancora una volta, quei 2 folletti mutati in farfalle rincorrersi ora felici, in un vortice d'ali variopinte.
Ora sono solo pensò.
Sono solo.

giovedì 16 maggio 2013

Raccontino horror breve per un contest che già gira su facebook, lo pubblico anche qui sul blog...a presto per altre chicche!



Punizione

Toc toc
John Teere si affrettò ad aprire la porta della squallida camera d'albergo di Bucarest in cui si trovava, non riuscendo a trattenere un sorriso ebete sul volto.
«Oh ma buonasera!» Esordì di fronte alla figura che apparve alla sua vista: una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri e un fisico perfetto.
La ragazza non parlò, forse non conosceva la lingua dell'uomo, ma era evidente che sapeva il motivo per cui si trovava con lui in quella stanza, e lo dimostrò facendo scivolare le mani sul petto e sull'addome dell'uomo spingendolo fino a farlo ricadere sul letto.
Rob ha fatto davvero un'ottima scelta, pensò John riferendosi al suo portaborse, l'uomo incaricato di occuparsi di simili "dettagli" per le sue numerose trasferte di lavoro, questa ragazza sembra proprio una gattina ingrifata. Oh...
La ragazza aveva iniziato a leccarlo. Sul collo, sulle spalle, perfino sui capezzoli, mentre nel frattempo continuava a spogliarlo, come se non desiderasse altro.
John era colpito, ammirato. Mai aveva visto tanta devozione in una puttana: era come se volesse mangiarlo.
Per interminabili minuti John si sentì il Re del mondo. Provò sensazioni nemmeno lontanamente paragonabili a quelle poche volte in cui la moglie si prestava a simili attenzioni, o alle svariate volte in cui a farlo erano le puttane che Rob gli scovava in ogni angolo del mondo. Proprio mentre pensava che nulla potesse superare quel piacere, la ragazza si staccò da lui, spogliandosi completamente, rivelando le sue forme perfette. A John sembrava di non essere mai stato tanto eccitato. Provò ad alzarsi, pregustando con ineguagliabile lussuria quello che sarebbe stato il piatto forte della serata, ma con sua somma sorpresa non vi riuscì. Il pensiero andò subito alla bottiglia di vino che si era scolato a cena, eppure trovò strana quella sensazione di incapacità a muoversi. Ci provò ancora, senza ottenere un risultato più soddisfacente. Osservò la ragazza, quasi a chiedere un piccolo aiuto per rimettersi in piedi, ma a quel punto notò in lei un sorriso beffardo: si prendeva gioco di lui. Provò per una terza volta a rimettersi in piedi, appoggiando le mani sulle ginocchia, ma non riuscì a fare forza, tanto la sua pelle era stata resa scivolosa dalla saliva della donna.
Troppo scivolosa.
Osservò le sue gambe, il suo petto, il suo membro: tutto era ricoperto di una sostanza viscida che non poteva essere saliva.
«Ma cosa!? Cos'è questo?! Che cosa mi hai fatto?!»
La ragazza lo guardò inclinando il volto verso sinistra, aprendo la bocca in un largo sorriso. Un istante più tardi quel sorriso si tramutò in un ghigno, i suoi denti bianchi iniziarono a crescere fino a lacerarle la mandibola, i suoi occhi passarono da uno splendido verde a un bianco cadaverico, le unghie delle sue mani divennero simili ad artigli, e il suono della sua risata dilaniò il petto di John più di quanto, poco dopo, avrebbero fatto le sue zanne.
«Che cosa sei?! Cosa vuoi da me?!»
John Teere non ottenne risposta, né riuscì a muoversi, anzi, poco dopo si accorse di non riuscire più nemmeno a parlare.
Deve essere stata la sua saliva, pensò, la sua fottutissima saliva.
La ragazza, anzi il mostro, si inerpicò su di lui, come se volesse cavalcarlo sul suo membro rimasto turgido, assolvendo fino all'ultimo ai suoi doveri.
Gaah
Era il suono che ora la ragazza-mostro emetteva annusandogli la pelle, insinuando la sua lingua nelle orecchie dell'uomo, passando le mani sui suoi flaccidi fianchi come se stesse soppesando il suo pasto.
Sono un fottuto maiale per lei, riusì a pensare John, che aveva ormai perso il controllo del suo corpo, sta solo decidendo da dove cominciare.
Perchè vampiro, demone o chissà quale mostro quella donna fosse, perchè soltanto un mostro del genere poteva essere, era chiaro che se lo sarebbe mangiato, e John non era tanto stupido da non averlo compreso.
Gaah
La creatura sembrava non sapersi decidere, poi scivolo tra le sue gambe, emulando quel gesto che John aveva tanto gradito, soltanto una manciata di minuti prima: ora sapeva da dove iniziare.
Così sia, pensò John un'ultima volta prima di perdere i sensi, con l'immagine di sua moglie negli occhi, che io sia punito.

martedì 14 maggio 2013

Dopo qualche tempo eccomi ancora con un racconto scritto per un contest fantasy... nulla di eccezionale, e scritto inoltre prima di ricominciare a drogarmi di letteratura fantasy con gli infiniti libri della serie delle cronache del ghiaccio e del fuoco (che consiglio a tutti)...comunque, se non vi dispiace leggere un raccontino breve a tema lycans...eccolo qui!



L'ultimo avamposto


«Più veloci, più veloci dannazione!» imprecò Lennox rivolgendosi ai conducenti dei carri di coda, staccati dal resto del gruppo di alcune decine di metri.
Udì in risposta nulla più di un vociare confuso dal nitrito dei cavalli, dal rumore delle ruote malmesse dei carri lanciati alla massima velocità consentita loro dal terreno impervio e dagli orribili ululati delle bestie che stavano sciamando dai boschi circostanti, innumerevoli.
«Che state facendo? Sbrigatevi! Sbrigatevi!» urlò ancora, mentre i due carri di coda perdevano gradualmente contatto con gli altri quattro di testa, consapevole dell'impossibilità di rallentare per aspettarli, ma incapace di accettare la realtà dei fatti.
Lui, forse l'ultimo capitano della Guardia Reale del regno di Findor, avrebbe dovuto accettare il disonore d'assistere inerme alla morte di alcuni di quegli stessi cittadini che aveva giurato di proteggere a costo della sua stessa vita. Non erano più, d'altra parte, i tempi dell'onore e della giustizia: il regno era caduto, e l'ordine con esso.
Si impose di guardare avanti, di considerare l'evento con piglio militare: la perdita dei carri di coda avrebbe fornito ai carri di testa del tempo preziosissimo per aumentare le loro possibilità di raggiungere indenni l'avamposto di Goza, la loro unica possibile meta.
Eppure le urla di quegli uomini, come se fosse la sua stessa carne ad essere ridotta a brandelli dalle zanne dei mannari piuttosto della loro, e quelle voci, disperate...
No, non poteva tornare indietro: loro erano ormai spacciati, mentre più di altre venti persone contavano su di lui, solo su di lui per poter coltivare ancora una minima speranza di poter sopravvivere. Tra loro, inoltre, si trovava l'unica traccia di sangue reale rimasta al mondo: Selenya, nipote della defunta e amata Regina. Con lei si trovava la sua cameriera Yohanne e il più anziano tra i giullari di corte, quel Samar che aveva tanto detestato, da piccolo, per l'allegra caricatura che faceva del suo maestro, il fondatore stesso dell'Ordine speciale di Eefret di cui aveva ricevuto il privilegio di fare parte, ma che ora era fondamentale per la sua preziosa collaborazione.
Allo stato attuale quelle quattro persone rappresentavano tutto ciò che rimaneva della corte reale; il resto erano mercanti e contadini, rifugiatisi all'interno delle mura solo dopo l'invasione delle bestie. E poi c'era lui, naturalmente, il primo membro dell'Ordine ad essere nominato capitano della Guardia Reale, l'ultimo dei combattenti del regno rimasto in vita all'interno delle mura della capitale, e probabilmente dell'intero regno.
Non era stata una decisione facile, quella di abbandonare la città che era stata il cuore pulsante del regno, la cui popolazione poteva contare più di un terzo di quella degli interi dominii di Findor. Ora però era composta da nullaltro che un cumulo di ossa e macerie, lugubri avanzi dei pasti e delle scorrerie dei mannari che erano penetrati ogni giorno di più, tra brecce e passaggi, prendendo inesorabilmente il dominio della città. Dopo mesi passati arroccati tra le mura più interne del castrum, ormai preda dei morsi della fame e della follia che solo l'inedia e la paura sanno insinuare negli uomini, il piccolo drappello di soldati rimasti ai suoi ordini aveva deciso di abbandonare il proprio capitano e i propri cittadini, tentando un'improbabile fuga notturna verso Goza, l'unico posto sicuro del regno, a loro dire. Carichi delle ultime provviste residue i soldati erano partiti per l'improbabile impresa come ladri nella notte, cercando con la furtività di eludere il prodigioso olfatto dei nemici: le loro grida, tanto simili a quelle degli sventurati nei carri di coda, si erano impresse a fuoco nella sua mente. In quell'occasione Lennox si rese comunque conto di quanto la salvezza fosse lontana da quelle mura, e di come i suoi soldati, pur disertori, potessero avere ragione: se la salvezza esisteva, allora risiedeva a Goza, al di là del grande fiume, protetta dalle montagne ad Est e dal deserto a Nord.
«Capitano... Capitano!» esclamò senza alcun tatto Sloan, il giovanotto con i capelli rossi che, tra le poche scelte possibili, Lennox aveva eletto come a una specie di vice, dato che era perlomeno robusto, schietto e sapeva tenere in mano una spada.
«Che c'è Sloan? Ci sono dei problemi?» chiese il capitano emergendo dai suoi dolorosi ricordi.
Sloan affiancò il suo cavallo pezzato a quello nero di Lennox, facendogli cenno di avvicinarsi il più possibile, come se potesse realmente sussurrargli qualcosa mentre erano lanciati a tutta velocità, con i mannari solo a poche centinaia di metri alle loro spalle, impegnati a cibarsi dei cadaveri dei loro compagni.
«Abbiamo perso degli amici.»
«Lo so Sloan... lo so. Non sono i primi, non saranno gli ultimi. Sapevamo tutti quali fossero i rischi di questo viaggio.» commentò Lennox, intuendo quanto voleva dire Sloan se solo avesse trovato il coraggio di farlo: avrebbe voluto riferirgli che tutti erano terrorizzati, stanchi, assetati, e con una paura tremenda di fare la stessa fine degli sventurati passeggeri dei carri di coda, un terrore assolutamente giustificato, a dire il vero.
«Cosa devo riferire a Samar?» chiese Sloan mantenendo lo sguardo dritto davanti a sé, pronto semplicemente a obbedire agli ordini: era in poco tempo divenuto un ottimo subordinato.
«Digli di tranquilizzare Miss Selenya, se gli è possibile, e di dare istruzioni affinchè si continui a mantenere il carro di testa a questa velocità: tra poco dovremmo riuscire a vedere le porte di Goza, ne sono certo.» dichiarò Lennox non mancando di imprimere molta più fiducia in quella frase di quanta in realtà ne avesse.
Sloan obbedì immediatamente all'ordine, e avanzò affiancando il carro in cui viaggiava Selenya, il più bello dell'intera spedizione: per quanto era ancora possibile, Lennox amava attenersi ancora al protocollo, riservando solo il meglio per la famiglia reale, che non doveva e non poteva passare inosservata. Era consapevole di come la protezione della principessa rappresentasse ora il più elevato dei suoi compiti, nonchè l'unico mezza per evitare che quel gruppo allo sbando perdesse la propria identità.
D'un tratto si accorse che il tempo concesso loro dai propri compagni caduti stava già per terminare: sentiva la poderosa corsa dei mannari, vedeva alzarsi in lontananza nubi di polvere e terriccio dovute alla furia con la quale calcavano il terreno, spinti non dalla fame, ma dall'istinto predatorio con cui il loro stesso padre li aveva creati. Erano strumenti di morte, figli delle loro stesse mani, della follia di un uomo fatto di carne ed ossa come loro, ma senza un'anima, e il cui nome non sarebbe dovuto mai esistere, né essere ricordato, ma anzi disperso nell'abisso della sua necromantica magia. Si era invece affidato a lui il Re in persona, nella futile speranza che, fornendolo dei mezzi richiesti, sarebbe stato infine in grado di porre fine alla sanguinaria e secolare guerra, e fu così che iniziò la fine, il regno dei mannari che si rivolsero contro il loro stesso creatore, e contro ogni altra forma di vita del mondo abitato, sorgendo dalla magia oscura, dai resti dei caduti e dalla polvere stessa, a centinaia, a migliaia, fino alla morte dello stregone loro padre. Erano creature estremamente forti e astute, incredibilmente tenaci, bramose di carne e sangue: la manifestazione diretta di ogni incubo possibile.
«Sloan!!» gridò, richiamando immediatamente l'attenzione del giovane, che arretrò nelle retrovie non avvedendosi ancora dell'inseguimento dei mannari alle sue spalle, anzi, comparendo con un indecifrabile sorriso sul volto.
«Capitano!» esclamò «Capitano, il cocchiere del carro di testa ha avvistato i cancelli di Goza!»
«Bene, benissimo!» sospirò Lennox, benedicendo l'insperata notizia, poi, ricordandosi della turba di mannari dietro di sé, ordinò «Cavalca più velocemente che puoi, raggiungi i cancelli e dai disposizioni a chiunque sia di guardia di spalancare i cancelli per farci passare, e poi di prepararsi a richiuderli il più velocemente possibile: abbiamo dozzine di mannari alle calcagna. Ricordati di dir loro che parli per nome della principessa Selenya, legittima erede del trono di Findor: questo dovrebbe garantire per la tua incolumità e per la loro obbedienza.. Vai, veloce!»
Sloan capì subito l'importanza del compito che Lennox gli aveva assegnato, quindi colpì con i talloni i fianchi del cavallo e scattò velocemente precedendo l'intera carovana di carri, deglutendo rumorosamente alla ricerca delle giuste parole di ambasceria, seguito dal suo capitano impegnato a incitare ogni cocchiere a ottenere il meglio da ogni cavallo, dispensando parole di incoraggiamento e ordini, innestando speranza e paura.
Prima di voltarsi e tornare a chiudere le fila del gruppo, Lennox permise che lo sguardo si attardasse brevemente all'interno del carro della principessa, al di là del piacevole volto di Yohanne e del rubicondo viso di Samar, fino a posarsi sulla bella Selenya, la donna che avrebbe protetto a costo di morire per farlo, per il ruolo assegnatogli dal fato, ma che avrebbe inoltre amato più di ogni altra cosa, in un altro tempo, in un'altra vita. Non era frutto di un capriccio, o di un'infatuazione momentanea: Selenya era sempre stata avventurosa a corte, violando limiti e imposizioni, curiosando nella piazza d'armi e nei laboratori anzichè nella biblioteca e in sartoria, mostrando sempre grande curiosità per la magia e una grande attitudine alla fuga dai suoi appartamenti. Fu a causa di una di quelle fughe che Lennox ebbe modo di conoscerla, essendosi casualmente imbattuto in lei nella sala d'addestramento dell'Ordine.
«Chi sei tu, che ci fai qui?» ricordò di avergli chiesto, essendo all'epoca lui soltanto un novizio al quale erano sconosciuti i volti dei membri della famiglia reale.
«Te lo dirò soltanto se mi mostrerai il ruggito di Eefret! Ti prego...» aveva risposto lei, mostrando un sorriso perfetto, stretta nel suo vestito impettito, risplendente di una bellezza incomparabile con quella delle locandiere e avventrici con le quali aveva avuto l'opportunità di intrattenersi fino a quel momento, e con una gentilezza e una compostezza capaci di disarmarlo in un istante.
«Quella del ruggito non è che una favola da raccontare ai bambini...» le aveva risposto, non staccandole gli occhi di dosso nemmeno per un istante, come se fosse stato vittima di una malia «ma se otterrò il tuo nome, e se è questo che desideri, allora ti mostrerò quello che può fare un membro dell'Ordine di Eefret...»
Così dicendo Lennox aveva disteso il braccio, aperto il palmo della mano e scagliato un piccolo globo di fuoco contro uno dei tanti bersagli preposti usati per l'allenamento, il meglio che all'epoca riusciva a fare. Riuscì a ottenere comunque un grande effetto agli occhi della principessa, e quando quest'ultima, piena di ammirazione, rivelò infine il suo nome, Lennox ricordò il terrore che l'ipotesi che un simile incontro potesse essere frainteso se qualcuno lo avesse riferito al suo severo maestro, causando la sua espulsione dall'Ordine, ma anche la gioia nell'apprendere che una simile creatura non appartenesse al volgo, bensì alla famiglia reale, una stirpe superiore discendente da Findor stesso, il primo Re, il semiDio. La piacevolezza della sua figura e dei suoi lineamenti derivavano dall'indiscussa superiorità del lignaggio e rendevano impossibile ogni possibile rapporto amoroso, ma non negarono a Lennox la gioia del ricordo di quell'incontro, delle poche parole scambiate con la principessa, e formarono una sorta di riservato pudore anche quando, pochi anni più tardi, venne eletto capitano e onorato del compito di difensore della famiglia reale, secondo soltanto all'ormai defunto generale. Non osava incrociare il suo sguardo con quello della principessa, non poteva farlo senza che la mente si affollasse di pensieri indegni di un capitano del regno di Findor. Eppure ecco che ora la cercava, fino ad incrociare i suoi occhi bruni e le sue labbra scarlatte, trovando ancora una volta la conferma alla sua più salda convinzione: se era rimasto in vita in quell'immenso campo di battaglia che il regno era ormai diventato, era soltanto per proteggerla.
Lennox tornò rapidamente alla coda della spedizione, attese fino al momento in cui egli stesso vide la cinta muraria di Goza, quindi tirò improvvisamente le briglie del cavallo, costringendolo a impennare e poi a voltarsi, con i mannari ormai vicinissimi. Distese il braccio, ripetendo quel gesto compiuto anni prima alla presenza della bella Selenya, aprì il palmo della mano in direzione ei primi 2 esemplari alla testa del branco, ignari di cosa li avrebbe colpiti, quindi creò un enorme sfera di fuoco incandescente, scagliandola contro di loro. I 2 mannari furono investiti in pieno dalla straripante potenza della sua magia, cadendo malamente sul terreno, intralciando con i loro corpi infuocati i loro stessi simili, ululando in preda al dolore lancinante delle ustioni: l'attacco era stato un successo.
Il capitano si affrettò poi a raggiungere i cancelli della città, constatando con gioia di come ormai tutti avessero già oltrepassato l'immenso portone ligneo. Non appena anche il suo cavallo -uno dei migliori che avesse mai cavalcato- ebbe varcato l'ingresso, immediatamente 4 uomini robusti richiusero il portone alle sue spalle, permettendogli di tirare un grosso sospiro di sollievo. All'interno di quel luogo sicuro poteva rimanere insensibile agli ululati dei mannari rimasti all'esterno e ai colpi tremendi di questi vibravano contro ogni parte del cancello, perfino al suono prodotto dai loro artigli sul legno. Erano protetti da cancelli di più di 5 metri, alla presenza di uomini armati e addestrati alla battaglia: li aveva riconosciuti dalle divise, si trattava dell'esercito regolare di Findor, tra i migliori, in quanto controllare quella zona impervia, proteggendo l'intero regno dalle possibili minacce sia dal Nord che dall'Est, doveva certamente essere un compito rischioso, adatto a gente esperta. Sopravvivere alla piaga dei mannari, inoltre, qualificava ancora di più quel posto come qualcosa di eccezionale, capace di riuscire dove la capitale stessa del regno aveva fallito, e doveva essere guidato da un uomo straordinario. Quell'uomo stava semplicemente attendendo di avere la sua attenzione, rimanendo nel frattempo impassibile al centro dello spiazzo principale, un grande spazio circolare a cui facevano sfondo pochi essenziali edifici e una grande recinzione colma di Capas, l'animale simile alle pecore tipico di quelle zone.
«Il mio nome è Tarles» esordì dall'alto del suo metro e novanta circa di muscoli esibiti con arroganza «e sono il comandante della città di Goza, ultimo avanposto della civiltà. E tu sei un mago dell'Ordine di Eefrit, non è vero? I miei uomini hanno visto cos'hai fatto là fuori. Rispondi.»
Il tono e l'espressione del volto di quell'uomo erano tutt'altro che amichevoli, e inoltre Lennox notò come tutti i suoi uomini fossero rimasti in attesa di disposizioni, schierati in modo tale da riuscire a sopraffare con semplicità le sue forze.
«Il mio nome è Lennox, maestro dell'ordine di Eefrit e capitano del Regno di Findor al quale tu stesso appartieni, comandante Tarles.» rispose con fermezza, deciso a far valere i gradi che identificavano di fatto Tarles come suo subordinato.
«Il Regno di Findor ora non esiste più: non ha più un sovrano, ne ha più una capitale, dato il vostro esodo» asserì Tarles severo «e inoltre io non ho altro motivo per averti accolto qui, nella mia casa, se non questo: il tuo araldo ha detto di parlare in nome della legittima erede. Parla: lei è qui? Mostramela, ora.»
Era evidente come quell'uomo non intendesse riconoscere l'autorità di Lennox e quell'inquisitoria, inoltre, non prometteva nulla di buono. Mentre ancora stava scegliendo con cura le parole per evitare che la situazione potesse surriscaldarsi ulteriormente, ecco che dal carro della principessa scese Samar, il menestrello di corte divenuto con il passare dei giorni un'insostituibile risorsa per l'intera spedizione, con il volto rosso d'ira e i pugni serrati, avvicinandosi a larghe falcate in direzione della statuaria figura ritta al centro della piazza.
«Come osi!» esordì, rivolgendosi a Tarles «Come osi domandare che la principessa ti venga mostrata come se fosse una cortigiana, tu, arrogante e borioso figlio di...»
Il vecchio giullare non riuscì a completare il suo insulto: Tarles con un solo, fulmineo movimento, aveva estratto la sua spada, troncandogli di netto la testa. In un attimo ondate di panico si diffusero tra gli abitanti della capitale ancora rintanati nei carri, immobili nella paura.
«Mostramela, ora.» ripetè ancora Tarles dopo essersi macchiato le mani del sangue del vecchio cortigiano senza battere ciglio.
La situazione era ora definitivamente sfuggita di mano. Lennox aveva assistito impotente all'assassinio di Samar, e per esperienza sapeva che le balestre degli uomini alle sue spalle erano ora puntate contro la sua schiena: doveva riuscire a giocare al meglio le sue carte, o le conseguenze sarebbero state terribili.
«Perchè desideri tanto incontrare la principessa Selenya?» domandò, cercando di trovare un po' di chiarezza nei recenti, terribili avvenimenti «Tu stesso hai detto che il Regno di Findor ormai non esiste più».
«Vero, ora non esiste più...» rispose Tarles, ripulendo la spada dal sangue «non ha più una capitale, né un legittimo sovrano, nè una guardia reale, per essere precisi. Ma potrebbe riacquistare queste condizioni, qui e ora.»
«Spiegati.» impose Lennox, divenuto ormai incapace di rivolgersi a Tarles con toni ossequiosi.
«La capitale di un regno consiste nel luogo maggiormente sicuro e popolato, nella quale ha residenza il sovrano.» rispose.
«Dunque?» lo incalzò Lennox, incapace di decifrare la spiegazione.
«Dunque oggi Goza rappresenta la città più popolosa del regno e quella meglio difesa, qui si trova la legittima erede, sangue di Findor...» spiegò Tarles, con assoluta calma «e sempre qui, dopo le mie nozze formali, risiederà il legittimo sovrano del Regno, la corte e la guardia reale formata dai miei valorosi uomini!»
La tonalità crescente con la quale pronunciò le ultime parole innescò le grida di approvazione dei suoi uomini, i quali sollevarono al cielo balestre e spade, fischiarono e batterono i piedi, trepidanti d'eccitazione.
«Per questo ti chiedo ancora di mostrarmi la legittima erede: per fare di lei la mia sposa e di me il nuovo sovrano, in virtù dei poteri a te conferiti come membro dell'Ordine.» disse Tarles, avvicinandosi a Lennox quel tanto che bastava affinche potesse sussurrargli all'orecchio un'ultima frase «La forma è bellezza, l'armonia il potere. Fa di me il sovrano.»
Lennox lo osservò perplesso, perfettamente consapevole di trovarsi di fronte a un pazzo. Voleva realmente approfittare della situazione per farsi nominare Re? E a che scopo? Già comandava in tutto e per tutto quell'avanposto, i suoi uomini lo idolatravano, a quanto poteva vedere, quindi perchè? Forse un delirio di onnipotenza, pensò, o il risentimento pregresso verso il precedente sovrano: sapeva che diversi esponenti dell'esercito erano ostili e progettavano di prendere il potere, qualora se ne fosse presentata l'opportunità, e questo concatenarsi di eventi sembrava perfetto, se Tarles era proprio uno di quei soldati.
«Avete ragione.» osservò Lennox «Qui a Goza sembrano esserci tutte le credenziali perchè possa divenire la nuova capitale del Regno, il punto fermo da cui ripartire. Avete alte mura, un pozzo per l'acqua, un allevamento di animali per carne e formaggi e degli uomini abituati a combattere, perfettamente qualificati, per difendere tutto questo e lo stesso sovrano, assumendo il ruolo della Guardia Reale.»
Grazie a quest'ultimo complimento Lennox notò come molti degli uomini di Tarles si rilassarono leggermente, e tanto bastò a convincerlo di avere scelto il modo migliore per uscire da quella situazione, quindi continuò «Dite bene, comandante Tarles, sostenendo che dovrebbe essere questa la residenza del sovrano, sovrano che costituisce ora un elemento indispensabile per riunire il popolo, fornendogli la necessaria luce che solo la figura del Re può fornire. Sotto la sua guida, e con l'aiuto del suo braccio armato e delle difese naturali su cui solo Goza può contare, Findor rinascerà, riaffermando ancora la sua antica gloria, ne sono certo.»
«Hai parlato bene, capitano. Ora mostrami la legittima erede, e apprestati a celebrare la sacra unione.» ordinò Tarles, mantenendo quel regime di austera rigidità che lo aveva caratterizzato fino a quel momento.
«No.»
«No? No?» ripetè 2 volte Tarles, stupito del diniego di Lennox.
«Non avete titolo per prendere Miss Selenya come vostra legittima sposa: le vostre mani sono sporche del sangue di un suo famiglio, un crimine imperdonabile.» sentenziò Lennox, osservando il volto di Tarles corrugarsi, la sua mano scivolare sull'impugnatura dell'elsa «In qualità di capitano della guardia Reale, e come maestro dell'ordine di Eefret, io mi rifiuto di accettare e celebrare questa unione. Vi offro però un'alternativa che spero troverete interessante.»
«Parla.»
«Io rappresento l'ultimo ostacolo tra voi e il regno. Se morirò voi sarete libero di agire come meglio credete, persino di benedire la vostra unione con il sangue proveniente dalla ferita mortale che voi stesso mi infliggerete.» lo allettò Lennox «Accettate dunque la mia sfida: una singolar tenzone, tra me e voi, per il trono. Io appartengo all'Ordine di Eefrit, è vero, ma non avete nulla da temere: presumo sappiate che dopo un colpo simile a quello da me scagliato in precedenza, per diverso tempo non riuscirò a fare un uso altrettanto efficace della magia.»
E questo era vero, almeno in parte. Nei lunghi mesi passati a difesa di quel che restava della capitale, Lennox aveva imparato ad andare oltre ai suoi limiti. I membri dell'ordine di Eefrit erano degli uomini speciali, allevati sin da piccoli per riuscire a utilizzare la magia, prima manipolando il fuoco per poi infine crearlo e utilizzarlo in battaglia, per sbaragliare le linee nemiche. Data la grande quantità di energia necessaria per risultare efficaci negli scontri, i membri dell'Ordine erano preferibilmente relegati al ruolo di protettori dei membri della famiglia reale o esponenti di un sacerdozio guerriero, fino ad assolvere alle questioni più sacre, come la nomina di un nuovo sovrano. Eppure in quei giorni terribili Lennox era riuscito ad andare molto al di là di questo, esaurendo costantemente ogni brandello di energia per combattere in prima linea contro i mannari, nella consapevolezza di essere tra i pochissimi capaci di opporsi loro e garantire l'incolumità dell'ultimo membro della famiglia reale, tanto più in quanto si trattava di quella stessa donna che era stata capace di turbarlo, da novizio, e che ancora ammirava per bellezza e virtù.
«Accetto la sfida. Chi ne uscirà vincitore sarà il nuovo sovrano di Findor» dichiarò Tarles, brandendo lo spadone che portava sulla schiena.
L'orgoglio e l'arroganza del comandante erano state le uniche basi sulle quali Lennox aveva impostato il suo agire, l'unica modalità in cui poteva riuscire a non morire per le freccie degli uomini piazzati alle sue spalle. Quell'asserzione finale di Tarles rischiava però di destabilizzarlo: lui il nuovo Re di Findor? Proprio lui sposo di colei che aveva sempre considerato irraggiungibile eppure in un certo senso aveva sempre amato?
Non ebbe tempo di riflettere troppo circa quelle possibilità fino a quel momento mai prese in considerazione: Tarles lo attaccò frontalmente con la furia di un uomo perfettamente abituato a combattere, muovendo il pesante spadone con un'agilità e una precisione impressionanti, consentendo a Lennox di riuscire a parare appena, e con enorme difficoltà, l'incessante susseguirsi dei suoi colpi. Arretrò ancora e ancora, respingendo con difficoltà la furia dei colpi, giungendo quasi a contatto con gli enormi portoni lignei, dietro ai quali poteva udire il fremente accalcarsi delle creature eccitate, e solo in quel momento realizzò quale potesse essere l'unico modo per riuscire a uscire vincitore non solo da quello scontro, ma anche dalla successiva rivalsa che la morte di Tarles avrebbe certamente condotto nei suoi uomini.
Doveva distruggere il portone, non gli importavano le conseguenze, era l'unica cosa da fare per liberarsi allo stesso tempo sia di Tarles che dei suoi uomini, a costo di rischiare ogni vita tra i presenti. Con un improvviso scatto si portò di diversi metri alle spalle di Tarles, con di fronte a sé il portone, quindi tese il braccio e infuse nel palmo della sua mano quanta più energia possibile: ne scaturì un globo di fuoco di rara potenza, che abbatte il portone lasciando attoniti i presenti.
«Tutti nei carri, ora!» gridò Lennox, nella speranza di salvare quante più vite possibili dalla calcoata follia del suo gesto.
Un istante più tardi dalla voragine causata dal globo di fuoco sbucarono zanne e artigli, e il primo mannaro si avventò su Tarles, il quale reagì vibrando un tremendo colpo del suo spadone, ponendo fine alla vita della bestia come se si trattasse di un cane randagio anzichè di un mannaro famelico. Lennox non ebbe modo di osservare con altrettanta attenzione le successive azioni del portentoso nemico: un altro mannaro lo aveva scelto come sua preda, e in quel momento si trovava quasi del tutto privo di energie, incapace di muoversi e colpire alla stessa velocità alla quale era abituato.
In breve tempo Lennox si ritrovò con la schiena a terra e il corpo schiacciato da una bestia di oltre un quintale, le cui fauci pestilenziali erano pericolosamente vicine al suo collo, trattenute soltanto dalla sua strenua resistenza: aveva bisogno almeno di un altro minuto prima di riuscire a tornare a combattere come sapeva. Provò a ruotare su un fianco per liberarsi, ma la forza della bestia era inaudita: non poteva reagire.
Fu allora che Sloan, rimasto fino a quel momento inebetito a fianco del suo cavallo pezzato, decise di intervenire. Lui conosceva perfettamente le prodigiose abilità magiche di Lennox, e allo stesso tempo era consapevole del suo temporaneo stato di debolezza dopo essere incorso in uno sforzo simile, così quando si avvide della lotta tra un mannaro e il suo capitano, capì immediatamente di dover passare all'azione. Si gettò nella piazza scansando uomini e bestie, sguainando la sua spada tra l'assurda confusione creatasi e le frecce scagliate dagli uomini di Tasler nel disperato tentativo di arginare l'invasione, facendosi stada fino a ritrovarsi quasi di fronte a Lennox, ancora alle prese con il mannaro che ora apriva e richiudeva sistematicamente le fauci, famelico. Nonostante un recente passato terribile, e il ricordo ancora vivo dei tanti compagni divorati da quelle fauci terribili, Sloan non provava più terrore o paura, ma solo rabbia: alzò la spada sopra di sè e si preparò a uccidere la creatura, quando sentì una fitta di dolore allo stomaco, e improvvisamente una lama uscire dal giubbetto di cuoio che portava, causandogli dapprima smarrimento, poi la consapevolezza di essere stato colpito a morte da Tarles. Si era accorto subito che qualcosa non andava in quell'uomo, dal modo freddo in cui l'aveva accolto, dall'iniziale decisione di lasciare tutti fuori da Goza, a morire, presa senza battere ciglio e ritrattata solo dopo aver sentito della presenza della principessa Selenya, e ora quello stesso uomo l'aveva colpito alle spalle, come un vigliacco.
«Capitano...» riuscì a sussurrare, mentre il dolore provocato dall'estrazione della lama dal suo corpo lo costringeva a cadere sulle ginocchia, prima di accasciarsi a terra, esanime.
Lennox aveva visto ogni cosa. Era stato pervaso dalla gioia di vedere Sloan, dalla soddisfazione nel constatare la sua lealtà nei suoi confronti, e poi lo aveva visto cadere, e dietro di lui riapparire quel Tarles per cui aveva provato un sincero odio sin dal primo istante, e che in pochi minuti aveva spezzato già 2 vite di persone a lui care. Questa rabbia, unita all'effettivo passare dei minuti e alla conseguente ripresa delle sue forze, gli permise di trovare la necessaria forza per spingere lontano dal suo petto la bestia quel tanto che bastava per estrarre il piccolo pugnale dal fodero cucito all'interno della camicia e piantarlo nella gola del mannaro, poi si alzò di scatto, recuperò la spada caduta e finì la bestia, con un colpo preciso che non le diede scampo.
Tarles era rimasto impassibile. Non aveva approfittato della confusione per vibrare un colpo a tradimento: dopo aver ucciso Sloan aveva osservato Lennox liberarsi del mannaro e ucciderlo, e ora era semplicemente in attesa che si riprendesse lo scontro tra loro. Sembrava meno umano dei mannari stessi, incapace di provare rimorso per le sue azioni, insensibile all'invasione in corso: in quell'istante l'unica cosa che contasse davvero, per lui, era sconfiggere Lennox in combattimento, nient'altro. Si scagliò dunque ancora su quello che al momento considerava come il suo unico nemico, mostrando una forza che, come in precedenza, surclassava ampiamente l'avversario, costringendolo sulla difensiva.
Lennox non riusciva a capire come fosse possibile che un uomo tanto forte non avesse scalato i vertici della milizia fino a diventare anch'egli capitano, o addirittura un generale: mai aveva combattuto un avversario tanto forte. Si rammaricò subito, però, di aver pensato che un tipo come Tarles avesse mai potuto ambire a una carica prestigiosa nel Regno di Findor: la straordinaria forza non aveva significanza se accompagnata dalla lucida follia che aveva visto brillare nei suoi occhi, né il sangue versato dal vecchio Samar e dal fedele Sloan permettevano un simile pensiero.
Per vendetta, per dovere, per giustizia, doveva uccidere Tarles.
Con un incredibile sforzo si costrinse a ricorrere alla magia ancora una volta: non per formare un terzo globo di fuoco -operazione che andava ben al di là delle sue capacità- ma per infondere calore alla lama sua spada, fino a renderla quasi incandescente, come se fosse un'esternazione fisica della rabbia e del risentimento che provava. Iniziò quindi ad essere più veloce, più preciso, più determinato, mentre Tarles continuava a colpire, ma perdendo in efficacia, trovando una difesa sempre più solida e un'arma quasi viva, fumante, minacciosa. Lentamente, ma inesorabilmente, la mossa di Lennox cambiò le sorti dello scontro: Tarles iniziò ad arretrare, a badare molto più a rispondere agli attacchi anzichè condurli, a temere la spada del suo avversario desirando che un mannaro lo divorasse, ponendo così finalmente fine allo scontro. Volse lo sguardo intorno a seè, cercò disperatamente una delle stesse bestie i cui denti adornavano il suo collo e la sua cintura come alleata, nel disperato tentativo di uccidere il mago, disperandosi per non averlo ucciso alle spalle come un cane quando ne aveva avuto la possibilità, ma era tardi ormai. Approfittando della sua distrazione Lennox vibrò un colpo che squarciò il petto del comandante di Goza, facendolo inesorabilmente cadere nella polvere.
«Hai vinto, mago.» Annunciò con naturalezza, quasi come se quelle non fossero le sue ultime parole, poi, dopo un breve silenzio preludio di morte, aggiunse: «Ora diventa Re.»
Lennox rimase scosso da quell'ultimo ordine dato dal comandante della città: in effetti il duello era stato una sfida per il potere che Tarles desiderava, e il suo nome era Selenya.
Selenya.
Cercò immediatamente di individuare con lo sguardo il carro della principessa, non riuscendo a individuarlo: tutti i carri erano in movimento, per via del terrore che aveva preso possesso dei cavalli, nonostante la battaglia fosse ormai vicina al suo epilogo. Nonostante le numerose vittime distese a terra, infatti, il numero dei mannari era diminuito drasticamente, segno che gli uomini di Tarles erano anch'essi combattenti eccezionali: della dozzina e più di mannari penetrati a Goza per via della sua azione disperata soltanto 2 sembavano essere ancora vivi, e stavano combattendo con gli ultimi soldati della città.
Per un momento Lennox pensò che in fondo non sarebbe stato affatto male se gli ultimi mannari e gli ultimi uomini di Tarles si fossero uccisi a vicenda, ma poi, memore delle ultime parole del comandante di Goza e del prestigio morale che come ultimo membro dell'Ordine di Eefrit doveva ricercare, abbandonò ogni indugio e si lanciò in loro aiuto. Insieme riuscirono rapidamente ad avere la meglio sui mannari rimasti, e anzi quegli uomini furono poi i primi a ringraziarlo e a precipitarsi a riparare le porte divelte dalla sua magia e prestare soccorso ai feriti, senza distinzioni, mentre ancora arrancavano per le fatiche patite nella battaglia.
Mentre Lennox si interrogava su come potessero quegli uomini ringraziarlo e aiutarlo nonostante fosse stato lui stesso la causa della perdita di tanti compagni, la voce di Tarles gli risuonò ancora nella mente: diventa Re.
Con poche, ampie falcate, percorse nuovamente la piazza, fino a raggiungerne il centro. Qui attese qualche istante, incerto su cosa dire, poi vide Selenya fare capolino da un carro, salva, anche se scossa, sorretta dalla fedele Yohanne, e tutto divenne chiaro.
«Uomini di Goza, cittadini di Findor...» disse con voce solenne, richiamando a sé l'attenzione «oggi tutti noi abbiamo perso qualcuno a noi caro, tutti noi abbiamo visto l'orrore e la morte, abbiamo sofferto e ancora stiamo soffrendo, e tutto questo a causa mia.»
Un brusio di disapprovazione si levò dalla zona dei carri: per molti di loro Lennox era piuttosto l'eroe che aveva saputo salvarli da mille pericoli.
«Ho preso oggi una decisione costata molte vite, una decisione sofferta che ho ritenuto giusta, ma non mi aspetto da voi il perdono: nessun uomo, sia egli un comandante o un capitano, potrebbe chiedervi il perdono per questo.» Dichiarò
«Solo un Re potrebbe farlo.»
Tutti i presenti volsero lo sguardo verso l'autrice di quest'ultima affermazione: la principessa Selenya. Liberatasi dal braccio di Yohanne, la nipote del defunto sovrano avanzò in direzione di Lennox, distendendo il braccio allo stesso modo in cui il capitano era solito scagliare il suo globo di fuoco, disorientandolo. Sorrise poi, divertita, porgendo a Lennox il dorso della mano, che prontamente baciò.
«Solo un Re» ripeterono all'unisono.