Sono
un vile
Tenendosi
costantemente a contatto con la parete del muro alla sua destra,
Mario P., trentaduenne ex idraulico confinato da otto mesi
nell'ospedale psichiatrico di Monza, giunse cautamente nella sala da
pranzo, non mancando, né mai l'aveva fatto, di gettare un'occhiata
ancora una volta in tutte le direzioni, alle finestre, alle porte e
poi ancora alle finestre.
«Mariano
Mariano...» esordì un ometto eccessivamente magro, ancora imberbe
nonostante avesse ormai superato da anni la soglia della pubertà e
con un paio di occhiali perennemente appannati «niente zombie anche
oggi, mi spiace! Niente vampiri, niente demoni, nessun mostro pronto
a entrare in questo covo di pazzi, quindi perchè non ti rilassi, non
ti siedi e aspetti che venga servito a tutti lo stufato con il
coniglio della vecchia Rita? Ah, una delle poche cose che mi
mancheranno di questo posto...»
«Io
m mi chiamo M Ma Mario!» protestò l'uomo, la cui balbuzienza era
notevolmente peggiorata durante i lunghi mesi di soggiorno in quel
luogo.
«Si,
certo, certo...ma Mariano mi diverte di più! E ora siediti, che non
ho tutto il giorno, e devo anche assicurarmi che Max Tentenna non
rovesci ancora il suo vassoio...» disse riferendosi a un altro
paziente allegramente rinominato con un nomignolo capace di
divertirlo.
Mario
obbedì subito, prendendo posto al tavolino posto esattamente al
centro della stanza: Danny, lo stagista infermiere, era una persona
malvagia, lo prendeva continuamente in giro, ma lui era l'unico, tra
tutte le persone là dentro, che non si sarebbe trovato impreparato
nel corso dell'imminente apocalisse zombie. Perchè quest'ultima era
inevitabile, di questo Mario ne era assolutamente convinto. Aveva
passato anni, a casa, accumulando scorte su scorte, erigendo muretti
e tramezze, attivando trappole e allarmi. Questo fino a quando la
sorella maggiore decise di farlo rinchiudere li dentro, di
appropriarsi della casa che era stata dei loro genitori e di venderla
a un ricco impresario ossessionato dai possibili furti che poteva
subire. Per Mario fu un incubo. La prima cosa che fece non appena la
stanza 4 del corridoio B divenne la sua nuova dimora fu studiarne la
posizione: quali erano gli ingressi, quali le possibili via di fuga,
quale fosse la capienza di cassetti e armadi... Poi provò a
immagazzinare tutto ciò che gli era possibile, raccogliendo
qualsiasi avanzo, ogni straccio, ogni giornale e ogni singola
cianfrusaglia sulla quale riusciva a mettere le mani. A un certo
punto, però, si imbattè in Danny. Non si trattava solo di un
ragazzo cattivo come quei tanti che aveva incontrato nella sua vita,
Danny si divertiva a enfatizzare le paure degli altri, li derideva e
punzecchiava, facendo tutto questo a scopo terapeutico, diceva, per
esorcizzare la paura. Mario lo odiava. Per fortuna, però, quello era
l'ultimo giorno per Danny: il suo periodo di stage era finito.
Con
questo pensiero in testa Mario gustò con gioia lo stufato, divorò
le patate di contorno e, dopo l'ora e mezza trascorsa nella sala
comune, si apprestò felicemente a ritornare nella sua stanza,
ovviamente badando sempre che nessun rumore potesse fornirgli il
minimo sospetto di essere seguito. Lui era sempre stato tranquillo,
non aveva mai dato problemi, e i medici non avevano assegnato nessuno
al controllo della sua persona: semplicemente, alle ore 22.00,
sarebbe dovuto passare l'infermiere a chiedergli se andava tutto
bene, e lui avrebbe risposto di si, e che stava per mettersi a
dormire.
Quella
sera, come sempre, proseguì nella rilettura dei suoi libri
preferiti: Manuale per sopravvivere agli zombie, Guida all'Apocalisse
Z, Manuale di sopravvivenza urbana, smettendo di leggere esattamente
a un quarto alle dieci, in modo da rielaborare quanto aveva letto per
poi dormire pochi minuti dopo il controllo, evitando così di stare
troppo sveglio la notte, oscura e piena di terrori.
Inaspettatamente,
alle 22.05 ancora nessuno era passato. Era piuttosto strano, ma la
cosa non lo preoccupò. Attese altri dieci minuti e ancora niente.
Ora era un po' agitato, nella sua mente iniziavano a farsi strada
ipotesi fantasiose, ma per la sua psiche decisamente non improbabili.
Altri 15 minuti, e Mario, oramai ridotto a un fascio di nervi, udì
un rumore, un rumore forte, chiaro, come se qualcuno avesse tirato un
calcio alla sua porta. In quel momento ogni sua paranoia divenne
certezza, avrebbe voluto urlare al suo psicologo che era tutto vero,
che quella sua convinzione era reale, anche se in verità non aveva
verificato nulla. Era solo un rumore. Con la forza della curiosità
più che del coraggio percorse i pochi passi che lo separavano dalla
porta, si chinò all'altezza della feritoia per il passaggio del cibo
di cui era dotata e vi appoggiò contro una mano, in attesa. Avrebbe
dovuto gettare uno sguardo dall'altra parte, ma non poteva, non ne
era capace, terrorizzato com'era all'idea che tutte le sue paure
potessero concretizzarsi. Attese ancora qualche minuto, durante i
quali gli parve di sentire ognuno dei rumori che tanto temeva: passi
strascicati, vetri sfondati, grida di terrore. Solo dopo alcuni
istanti di assoluto silenzio si decise a sollevare impercettibilmente
la feritoia, ruotando il collo fino ad avere una sottile visione del
mondo al di la della sua stanza, non sufficiente però a mostrargli
nulla. Sollevò ancora di qualche centimetro la lastra metallica,
avvicinò ulteriormente il suo occhio al passaggio creatosi e iniziò
a ripetere la sua abituale procedura: un primo sguardo alla sua
sinistra, nulla, un'occhiata alla sua destra e...
Ghaah!
Mario
cadde pesantemente sul pavimento, gli occhi sbarrati dal terrore, la
fronte imperlata di sudore. Uno zombie! Al di là della porta c'era
uno zombie, non era una sua illusione! L'aveva anche riconosciuto, si
trattava di Danny, l'infermiere. Aveva il volto coperto di sangue, e
non appena se l'era trovato di fronte aveva fatto scattare la
mascella, emettendo quel terribile grido; anche ora sembrava non
darsi pace, picchiando le mani contro la porta, continuando con le
sue urla disumane. Mario sapeva che tutto questo sarebbe successo, ma
ora era paralizzato dalla paura, incapace di alzarsi, di pianificare
una fuga, di reagire. Aveva passato anni a organizzare ogni dettaglio
nella sicurezza della sua abitazione, ma ora si trovava in quel
maledetto posto e non aveva avuto nè abbastanza tempo nè abbastanza
risorse per varare delle soluzioni valide. Ben presto si accorse che
le sue emozioni gli avevano già fatto perdere il controllo delle sue
funzioni corporali, aumentando a dismisura quel senso di opprimente
angoscia che stava velocemente impadronendosi di lui. Tremava,
ansimava, sudava. Il suo cuore aveva cominciato a battere
all'impazzata, i rumori provenienti dal corridoio sembravano sempre
più inquietanti, i cardini della porta più deboli e malmessi. Si
accorse che in fondo, anche se in quel momento fosse stato a casa
sua, circondato dalle sue provviste, le sue trappole e le sue armi,
non sarebbe mai stato pronto, e questo perchè era un vigliacco, un
debole, un vinto. Provò a girarsi per raggiungere il letto,
desiderando nascondersi sotto le coperte come quando era bambino, ma
ancora una volta si accorse di non poterlo fare. Il cuore batteva
così forte che si convinse di come la sua gabbia toracica non
sarebbe stato in grado di contenerlo. D'un tratto sentì un dolore
lancinante nel petto, come un fortissimo crampo al cuore: ansimò,
volse ancora uno sguardo in direzione della porta, quindi ricadde sul
pavimento, esanime, morendo con la consapevolezza di essere un vile.
Pochi
minuti dopo Danny aprì la porta della stanza, rassentandosi il viso
dall'abbondante ketchup e dal leggero trucco che aveva usato per
preparare quello scherzo, con la collaborazione di colleghi e
inservienti, per festeggiare con un po' di sadica goliardia il suo
ultimo giorno di stage.
Non
avrebbe lavorato come infermiere mai più.
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