Fortezza urbana
È tutto finito. Il sogno si è infranto. La fortezza è caduta.
Non riesco a trovare parole più concrete per descrivere la totale disfatta subita quest'oggi...è stato il crollo di un progetto che aveva ormai preso forma, al quale tutti noi credevamo, credevamo davvero. Ci sembrava che ci fosse stata concessa la possibilità di andare oltre a tutto quello che era avvenuto e che sta accadendo, oltre la paura, l'angoscia, ma che dico, il terrore di vivere in un mondo devastato, infettato, corrotto: un mondo dove i morti cacciano i vivi, proprio come se fossimo dentro a uno di quei film che ho sempre guardato tanto volentieri. E anche se in fondo so che non sono veramente morti viventi, ma dei contagiati, degli infetti, e che il mondo li chiama gialli (e a ben ragione, dato l'orribile colorito giallognolo che assume la loro pelle) per me quegli esseri sono dei fottutissimi zombie, e io stesso mi stupisco di come ormai l'assurdità della cosa non mi tocchi minimamente.
Ma procederò con ordine: ho tempo per farlo.
Quando tutto è cominciato, circa 2 anni fa, io, come credo un po' tutte le persone sane di mente suppongo, mi sono rifiutato di credere che tutto quello che vedevo e leggevo su internet potesse essere vero. Poi mi sono rifiutato di credere che, se anche era reale, tutto questo potesse interessarmi direttamente. Mi sono convinto che se mai era stato concepito un virus, nella lontanissima Corea del Nord, in grado di trasformare un uomo in una creatura in tutto e per tutto simile a uno degli zombie del film 28 giorni dopo, ovvero un agilissimo infetto antropofago praticamente immune a ogni danno (ed è stata una cosa ben difficile da accettare) beh, anche se tutto questo era realtà, la cosa sarebbe finita li. L'esercito americano sarebbe intervenuto, la minaccia sarebbe stata spazzata via. Invece no. Non ho idea di come davvero siano state gestite le cose, di come davvero sia stato possibile permettere a un virus nato in un singolo luogo alle periferie del mondo di sottomettere forze militari immense, dotate delle più letali ed efficaci armi di distruzione di massa...davvero non lo so.
Dall'incidente in Corea alla presenza massiccia di infetti in tutta l'Asia, comunque, il passo è stato breve. L'Europa quindi si è affrettata a chiudere i suoi confini, ma non è stato sufficiente: in breve tempo Russia, Germania, Francia, ma anche gli Stati Uniti, erano alle prese con i primi casi di follia, con le prime città in preda al caos, con i primi infetti a dettare legge per le strade.
Deve essere stato solo allora che ho accettato la cosa, e subito tutto è cambiato.
Beh iniziamo col dire che abito, abitavo anzi, in una media cittadina della Lombardia, 12000 abitanti circa, tranquilla e abbastanza isolata: non ci passavano né treni né pullman, fatta eccezione per quelli scolastici, non c'erano locali degni di nota, non c'era nemmeno una scuola superiore: era un comune che, a posteriori, definirei assolutamente noioso, composto in gran parte da zona industriale, imperniato sul settore tessile e su quello metalmeccanico. Dalla piazza principale si sviluppava un breve reticolo di negozi e attività, solo di recente arricchito con un grosso centro commerciale, che tuttavia rimaneva leggermente isolato, sganciato dalla strada principale e poco frequentato: per le grosse spese che solitamente si facevano nei weekend i miei concittadini preferivano di gran lunga spostarsi verso gli affollati centri commerciali addossati al vicino lago di Garda, così come gli abitanti dei comuni limitrofi, motivo per cui quel centro commerciale era divenuto l'emblema della rassegnazione comunale a rimanere una realtà secondaria e apatica, ma per me quel luogo era destinato a significare molto, molto di più.
Dopo i primi incidenti europei, infatti, iniziai a parlare con gli amici di sempre di come sarebbe stato possibile sopravvivere a un attacco di infetti su larga scala, discorsi che peraltro si ripresentavano ciclicamente nella mia compagnia: sia io che i mie amici Marco e Dago (che si chiamerebbe Matteo ma ho sempre chiamato così prendendo a prestito il primo pezzo del suo cognome) abbiamo sempre ipotizzato situazioni simili, specie dopo la visione di un film zombesco, e ne avevamo visti davvero molti. Quello che ci ha sempre maggiormente colpito è stato L'Alba dei morti viventi, e da qui è nata l'idea che nel suo sviluppo ha portato il centro commerciale a essere la nostra casa per più di 4 mesi: ci siamo detti, infatti, quale può essere il posto migliore per difendersi e per sopravvivere a un attacco di zombie? Naturalmente un posto chiuso, inaccessibile, ma anche ricco di riserve alimentari e di quant'altro possa servire, in grado di tenerci occupati per non impazzire e di offrire i mezzi per ricominciare una vita dignitosa, senza essere costretti a fare programmi a breve scadenza. Un posto in cui poter resistere e ripartire. Ecco il perchè del centro commerciale. Composto su 2 livelli, con all'interno un fornito supermercato, un negozio dedicato al bricolage, uno dedicato allo sport e un altro all'elettronica (oltre che a una profumeria per cui non abbiamo trovato una grande utilità teorica, ma che poi si è rivelata assai utile), era anche provvisto di bagni, di una lavanderia, di una grossa fioriera zeppa di piante ornamentali (nei nostri progetti trasformate immediatamente in pomodori, lattughe e quant'altro), di una cucina all'interno del supermercato e di soli 3 ingressi, provvisti di serranda: in aggiunta avevamo pensato di murare i 2 ingressi principali e di servirci, per le emergenze, di quello posteriore sul retro, collegato al magazzino del supermercato, dove avremmo lasciato un camioncino pieno di viveri e generi di prima necessità, per garantirci una fuga rapida e intelligente da eventuali pericoli. La sistemazione pareva ideale.
Naturalmente quanto detto poteva sembrare poi non tanto diverso dai discorsi teorici fatti in tempi passati dopo un film e una birra al pub, magari seguiti da altri nei quali il più preso dal discorso sosteneva quanto un'affilatissima katana fosse il mezzo migliore per disfarsi degli zombie, mentre un altro più prudente lodava la possibilità di mantenere una posizione sopraelevata unita a un fucile da cecchino, un'ottima mira e una quantità semi-illimitata di colpi. Stavolta però era diverso, la minaccia era concreta, incredibilmente reale, e la notte in cui il nostro piano divenne ufficiale non si vedevano boccali di birra né altro di simile: solo una palpabile tensione, tre posaceneri pieni fino all'orlo di mozziconi di sigarette e una determinazione che cresceva costante, innestata sulla consapevolezza che dovevamo agire per non ritrovarci sopraffatti.
Quando, nei primi giorni del Novembre 2013, le tv locali iniziarono a trasmettere le immagini di casi documentati di infetti nei pressi del Lago di Garda, a poco più di 30 Km dalle nostre case, capimmo che dovevamo agire. Naturalmente esponemmo il nostro piano alle persone a noi più care, i nostri familiari e le persone a noi più vicine e, tra feroci condanne, trovammo anche alcune adesioni: la madre e gli zii di Marco, Sonia, la ragazza di Dago, e suo fratello Igor, oltre a Giorgio, un mio caro compagno di università.
La sera del 5 Novembre Marco prese il camioncino del suo principale, un camioncino da elettricista pieno di vani che sarebbe stato il nostro piano di fuga rapida, passò a prendere i suoi familiari oltre che a Sonia e Igor e restò in attesa delle nostre mosse nei pressi del parcheggio sul retro del centro commerciale. Io e Dago eravamo nascosti dietro al grosso cassonetto a lato dell'entrata posteriore, in attesa che l'addetto al magazzino, l'ultima persona presente nel centro commerciale, uscisse per chiudere la saracinesca, mentre Giorgio era piazzato dall'altro lato, appena dietro l'angolo, pronto a intervenire nel caso ci fosse stato bisogno. Sapevamo che prima delle 21.00 non sarebbe passato nessuno della vigilanza. Avevamo mezzora di tempo per sorprendere l'addetto e chiuderci dentro nella massima discrezione possibile, e avremmo avuto tempo fino al mattino per allestire le nostre difese. Ancora non avevamo deciso che fare con l'addetto: l'idea iniziale era quella di minacciarlo con un coltello, una mazza o un arma giocattolo per farci consegnare il suo mazzo di chiavi, ma poi la sua presenza sarebbe stata un problema, ma a quel tempo non eravamo ancora in grado di stroncare una vita (il tempo ci avrebbe reso, ahimè, del tutto diversi) e così, quando venne il momento, optammo per l'opzione che ci parve meno drastica: sorprendemmo l'uomo all'improvviso, e con la pistola a pallini indirizzata con disinvoltura in direzione del suo volto gli intimai il silenzio, mentre Dago, portandosi rapidamente alle sue spalle, gli sferrava un violento colpo alla nuca con la mazza da baseball e il poveretto cadeva a terra svenuto. Subito Giorgio ci raggiunse proponendoci, con estrema lucidità, di legarlo, imbavagliarlo e infine metterlo nel grosso cassonetto dei rifiuti che ci aveva nascosto: sicuramente qualcuno l'avrebbe trovato e aiutato il mattino dopo. Seguimmo il suo consiglio, aiutandoci nell'opera con del nastro da elettricista recuperato dal camioncino di Marco, lanciammo non senza fatica l'uomo nel cassonetto e infine entrammo nel magazzino del centro commerciale. Eravamo dentro. La prima parte del nostro piano aveva funzionato, ma allo stesso tempo avevamo compiuto un azione che solo pochi mesi prima ci sarebbe apparsa improponibile, barbara, criminale, e che solo pochi mesi dopo, invece, avremmo ricordato come niente più che il primo passo di un percorso che ci ha portato a riscrivere le nostre regole morali, in un insieme di egoismo e necessità.
Subito chiudemmo la saracinesca dall'interno, poi accendemmo le potenti torce comprate per quell'occasione e ci dirigemmo tutti verso il negozio dedicato al bricolage, per recuperare il cemento e i mattoni per murare i 2 ingressi principali, e qui avemmo la nostra prima sorpresa: il negozio, che consideravamo ben fornito di ogni cosa, era con tutta evidenza stato legalmente saccheggiato nel pomeriggio, gli scaffali erano tutti mezzi vuoti, non c'era traccia di mattoni, mattonelle o quant'altro, lo stesso cemento a presa rapida era ridotto a poche unità. Dopo un breve colloquio decidemmo che era tardi per tornare indietro: dovevamo procedere con quello che avevamo. Carlo, lo zio di Marco che di mestier faceva il pittore, propose di utilizzare alcuni pannelli di compensato che aveva individuato ricoprendoli di gesso, che ancora era presente, e fissarli poi con il poco cemento rimasto, in modo tale che fornisse l'apparenza di un muro ben più solido di quello che era in realtà, attraverso il vetro chiuso e le larghe maglie della saracinesca abbassata: ci parve subito una buona idea. Immediatamente, però, ci rendemmo conto che dovevamo a tutti i costi proteggere quell'espediente, o le prime persone (all'epoca ci preoccupavamo ancora dei vivi) che avessero seriamente voluto sfondare gli ingressi ci sarebbero riuscite senza troppe difficoltà; fu allora che pensai alle bombe molotov per tenere lontani gli indesiderati, ma non ero sicuro di come si facesse a prepararle. Mettemmo sotto pressione Igor, credendo al luogo comune che essendo lui bielorusso certo doveva essere pratico di queste cose, ma ci sbagliammo: fortunatamente sua sorella Sonia era molto più lucida di noi e si collegò a internet con il suo smarthphone, permettendoci di scoprire che potevamo fabbricarne moltissime con facilità utilizzando bottiglie vuote di birra, alchool etilico e stracci, materiali che trovammo in abbondanza nel supermercato principale. Mentre alcuni di noi preparavano le molotov e altri aiutavano Carlo con i pannelli, io e Giorgio cercammo di individuare la botola al secondo piano che ci avrebbe condotti sul tetto, da dove avremmo potuto difendere i 2 ingressi con il lancio delle bottigliette incendiarie, quindi vi posizionammo una scala recuperata dal negozio vicino e iniziammo a trasferirvi le bombe appena create, con un accendino in tasca e il cuore che batteva a mille. Il mattino arrivò molto rapidamente, ma non si verificò quella guerriglia urbana che ci saremmo aspettati: io, Giorgio e Dago passammo tutto il giorno a mandare via alcuni lavoratori del centro commerciale (che fortunatamente ritrovarono l'addetto al magazzino nel cassonetto) e alcune persone che desideravano fare acquisti, ma non ci fu quella ressa, quella calca che sarebbe sato lecito aspettarsi, e ci limitammo a fare la voce grossa e al lancio dimostrativo di alcune molotov per dimostrare che facevamo sul serio.
Della polizia nemmeno l'ombra: nel giro di pochi giorni era dilagato il menefreghismo, la gente aveva fatto scorta di tutto e si era rintanata in casa, intimorita, mentre la polizia aveva evidentemente altri problemi ben più gravi da affrontare. La seconda fase del piano era riuscita, nonostante non fosse andata come previsto. Decidemmo che da quel momento in poi sarebbe stato saggio lasciare sempre qualcuno sul tetto di vedetta, pronto a difendere l'ingresso o anche solo ad osservare la situazione, munito di binocolo, Woki Toki (ne era rimasto solo un paio!), e i-pod: Dago si offrì di fare il primo turno, così io e Giorgio raggiungemmo gli altri, che nel frattempo si erano dati da fare, anzitutto trasformando il negozio dedicato allo sport al secondo piano nel nostro dormitorio, approfittando del fatto che l'ala dedicata ai vestiti era ricoperta di moquette. Le rastrelliere zeppe di abiti fungevano da separè per le 3 diverse zone letto che erano state allestite, con coperte e cuscini che venivano direttamente dal supermercato: le ragazze (oltre a Sonia, ventenne, c'erano Elena, la mamma di Marco, che non aveva nemmeno 40 anni, e Sara, la zia, che di anni ne aveva quasi 10 di meno, ed entrambe potevano ancora dirsi decisamente giovani) avevano fatto un ottimo lavoro. Marco e suo zio avevano invece passato il pomeriggio a selezionare il cibo nel supermercato (molto meno di quanto preventivato, evidentemente per via delle scorte ingenti fatte nei giorni precedenti dai cittadini), dividendo quello maggiormente deperibile, che avremmo dovuto consumare per primo, da quello a lunga scadenza, mentre Igor, che di mestiere faceva il meccanico, aveva iniziato a trasferire i pochi utensili sopravvissuti alla razzia di materiali del negozio dedicato al bricolage nel magazzino del supermercato, che avevamo già in precedenza deciso che diventasse la nostra officina. Lentamente, e con non poche difficoltà, stavamo rendendo quel centro commerciale qualcosa di diverso da quello che era. Qualcosa di nostro. La nostra fortezza urbana.
Inizialmente tutto sembrava facile e bello, e le giornate scorrevano veloci, impegnando ciascuno di noi nella risistemazione e nell'ottimizzazione degli spazi: al piano da basso si trovava la nostra zona cucina, all'interno del supermercato, con scorte alimentari che, nonostante constatammo inferiori alle aspettative, sarebbero bastate per almeno un paio d'anni, comprensive di bibite di vario genere e una buona riserva di alcolici, avevamo inoltre 2 bagni ai quali avevamo aggiunto il rubinetto per la doccia, una lavanderia per i nostri vestiti, una fioriera ormai divenuta il nostro orto e nella quale crescevano meravigliosamente lattughe invernali e piante aromatiche, nonchè un officina allestita ex novo nel magazzino del supermercato, dove Igor stava lentamente trasformando il camiocino del capo di Marco in un gioiellino anti-zombie, con rinforzi alla carrozzeria e retine metalliche ai finestrini. Al piano di sopra si trovava la nostra zone notte, all'interno del negozio dedicato allo sport, che diventava ogni giorno più accogliente e intima, e la nostra zona relax al negozio di elettronica, dove ci era possibile navigare in rete (anche se dava continui problemi funzionando a singhiozzo), vedere la tv con gli aggiornamenti del caso (purtroppo molto spesso angoscianti a dire il vero), o rilassarci con le varie consolle e le ampissime possibilità ludiche offerte dai numerosi giochi presenti nel negozio. Sul tetto si trovava il nostro centro di controllo sull'ambiente circostante, presidiato a tutte le ore del giorno, a turno, da tutti noi uomini, ma in special modo da Dago, forse, per la speranza di avvistare un giorno i suoi genitori, ai quali era molto legato, dirigersi verso il nostro luogo sicuro. Avvistò, invece, i primi infetti.
Erano passate circa 3 settimane dalla nostra decisione di barricarci preventivamente nel centro commerciale e, a parte i primi giorni, nessuno si era presentato agli ingressi cercando di entrare, pochissimi si aggiravano nelle strade: la paura aveva trasformato il luogo in un deserto ancor prima dell'affacciarsi del pericolo. Quella mattina, però, Dago ci chiamò con una voce che, filtrata dalle componenti elettroniche del Woki Toki posto sul bancone della nostra area relax, suonò quanto mai angosciata. Salimmo subito le scale e immediatamente capimmo il motivo dell'agitazione del nostro amico: a poco più di 500 metri da noi, dall'altra parte della strada che porta alla zona agricola del paese, un infetto stava divorando un cane. Potei distinguerlo perfettamente con il binocolo che mi passò Dago, con mani tremanti: era disgustoso, non aveva più nulla di umano, la sua pelle era gialla e livida, il volto imbrattato di sangue, con i denti affondati nei resti di quel povero cane che, costretto alla catena, doveva essere stata una preda facile. Presto mi accorsi che non era l'unico, altri gialli (ora capivo quanto fosse appropriato questo nomignolo) avanzavano dalle campagne, con andatura decisamente spedita per essere dei cadaveri ambulanti, convergendo verso il luogo dell'orrido banchetto. Il binocolo passò di mano in mano e il disgusto e l'orrore ci raggelarono il sangue: Sonia vomitò, Sara non riuscì a trattenere un grido di terrore che, purtroppo, suscitò l'interesse di 2 dei mostri, che improvvisamente mossero nella nostra direzione. Fortunatamente non riuscirono a capire dove fossimo esattamente, ma da quel momento ci cercano, incessantemente, e siamo stati obbligati a renderci più prudenti: la vedetta di turno sul tetto stava ben attenta a non fare rumore e non farsi avvistare dai gialli che sempre più numerosi vagavano per la zona, mentre all'interno della fortezza avviammo una monumentale opera di contenimento del suono, grazie alla nostra accortezza ma anche per mezzo dell'applicazione alle pareti dei numerosi cartonati per le uova che avevamo a disposizione. Ormai però non erano più giorni lieti, e con il passare del tempo ci accorgemmo delle sempre più evidenti difficoltà che inizialmente non avevamo nemmeno preso in considerazione. Anzitutto la paura. Eravamo barricati, protetti da solide mura, ma eravamo comunque terrorizzati: di fare troppo rumore, di un'improvvisa irruzione attraverso gli ingressi murati con deboli pannelli (anche se schermati dalle vetrate chiuse e dalle saracinesche abbassate) o anche, e questo per via di un infantile ma, ahimè, concreto terrore che quei mostri si materializzassero dal nulla, nei bagni, dietro a uno scaffale, accanto ai nostri giacigli. Il nostro sonno erano dominate dagli incubi più terribili e dalle saltuarie grida, chiare nella notte, di quei luridi abominii della natura, o delle loro vittime.
Presto, purtroppo, si verificarono anche seri problemi di altra natura. Anzitutto l'acqua, che iniziò a essere dapprima meno limpida, e che poi uscì sempre più sporca. Pensammo che l'acquedotto fosse ormai senza manutenzione e decidemmo di continuare a innaffiare il nostro orto, ma prestò fummo colti dal terribile dubbio che quell'acqua fosse contaminata da dei corpi in putrefazione, e ci limitammo, con disgusto, ad utilizzarla per lo scarico dello sciacquone. Poi la corrente. Un giorno, senza alcuna avvisaglia, semplicemente cessò di funzionare. Entrarono allora in funzione i generatori d'emergenza, ma potevamo dire addio al riscaldamento e alla connessione a internet, con enormi disagi: fummo costretti a indossare costantemente il cappotto e, per via della mancanza d'acqua corrente e della necessaria economia d'acqua in bottiglia, a sbarazzarci degli abiti sporchi, usando i vestiti nuovi del negozio sportivo e dosi massicce di profumo. Il problema principale rimaneva l'amara prospettiva di rimanere in un luogo in cui le scorte d'acqua si sarebbero prima o poi esaurite, e questo rendeva impossibile l'ipotesi di potervi rimanere per un lungo periodo. Presto o tardi ce ne saremmo dovuti andare: l'assenza di acqua non permetteva nemmeno di coltivare il nostro orto, le nostre scorte idriche erano ora divenute preziosissime e da quel momento in poi dovemmo iniziare a razionarle. La situazione non era assolutamente delle più rosee. Passammo in questo stato quasi 2 mesi, durante i quali spesso occupavamo le nostre giornate a discutere sulle nostre possibilità e sul nostro futuro, avanzando a più riprese l'idea di abbandonare il nostro rifugio, ma eravamo tutti troppo terrorizzati da quelle creature che potevamo continuamente scorgere dal tetto aggirarsi instancabili per le vie, per provare a prendere davvero in considerazione l'idea di uscire: i gialli non erano in moltissimi, ma potevano certamente dirsi i padroni delle strade, e nessun vivo osava farsi vedere, in nessun momento, sempre ammesso che altri, come noi, avessero deciso di barricarsi da qualche parte rimanendo in città.
Vivevamo nell'insofferenza.
La svolta arrivò la scorsa mattina: ripensarci mi mette i brividi. Sembrava un giorno come gli altri, perfino migliore grazie al sole di Marzo che stava ormai portando via il gelo dell'Inverno, quando Dago ci chiamò urlando attraverso il Woki Toki, e io mi affrettai a salire sul tetto, appena in tempo per vedere un'auto inboccare l'entrata del parcheggio a folle velocità, per poi frenare sgommando davanti all'ingresso, attirando l'attenzione di tutti i gialli della zona; quando il finestrino del guidatore si abbassò fui pervaso da un incredibile commistione di gioia, stupore e terrore: era mio padre, a fianco a lui mia madre e, sul sedire posteriore, la mia vicina di casa. I miei genitori mi urlarono di farli entrare e io, ripresomi in fretta dallo shock, mi affrettai a indirizzarli sul retro pregando, per mezzo del Woki Toki, Marco o chi per lui di aprire in fretta la serranda, mentre io e Dago avremmo lanciato senza parsimonia quante molotov potevamo contro i gialli che stavano confluendo nel parcheggio, con la speranza se non di ucciderli almeno di distrarli. Non appena sentii la serranda sul retro prima alzarsi e poi abbassarsi lasciai Dago e mi precipitai verso il magazzino; ero ancora sulle scale della botola quando l'aria fu squarciata da un lancinante urlo di dolore che fece triplicare la velocità dei miei passi: quando giunsi nel magazzino vidi mio padre stringere un martello insanguinato, ai suoi piedi uno di quei mostri, con il cervello spappolato, e accanto a lui Igor, che ancora si contorceva con un tremendo squarcio sul collo, mentre Giorgio fissava impotente i 2 corpi e Marco abbracciava stretta sua madre. Non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi da quella visione che altre urla si fecero sentire dall'atrio principale, mi precipitai e vidi Carlo osservare con occhi pieni di terrore gli ingressi, dai quali si sentiva provenire un frastuono metallico: i mostri ci avevano individuati e ci stavano attaccando. Dago si precipitò giù dalla sua postazione, dicendoci che almeno una dozzina di gialli, di cui alcuni letteralmente in fiamme, stavano cercando di abbattere gli ingressi e subito, in un vortice di eventi davvero terribile e accellerato, riuscimmo ad udire distintamente il suono dei cardini che cedevano, seguito da quello di vetri infranti dovuto all'abbattimento delle porte scorrevoli. Furono istanti di vero panico: Dago si precipitò a cercare Sonia, Carlo a cercare Sara, mentre io correvo verso il magazzino per avvertire tutti di prepararsi a una partenza fulminea; non l'avevo ancora raggiunto quando mi raggiunse il rumore di un tonfo secco, dovuto alla caduta di uno dei pannelli, seguito dalle urla e dalle grida dei gialli, che ormai erano entrati. Con mio grandissimo sollievo Dago e Sonia apparvero dalla zona medicinali del supermercato, dove la ragazza stava con tutta probabilità cercando disperatamente qualcosa per le ferite mortali del fratello, e insieme riuscimmo in qualche modo a far salire tutti sul camioncino, convincendo con la forza Sonia che per Igor non c'era più niente da fare. Sperai con tutto me stesso di vedere Carlo e Sara tuffarsi in fretta e furia nelle porte del camioncino, ma quando grida strazianti ci raggiunsero fui obbligato, in tutta fretta, ad aprire la serranda e precipitarmi sul camioncino che partì sgommando, con Marco alla guida, richiudendo verso di me gli sportelli del portoncino giusto in tempo per vedere 2 gialli raggiungere la porta del magazzino con il volto imbrattato di sangue e occhi vitrei che mi parvero colmi di rabbia.
La fortezza era caduta, 3 cari amici erano morti, e noi eravamo terrorizzati, senza un posto dove andare. Tutto nel giro di pochi minuti.
Abbracciai forte i miei genitori, gli dissi che ero contento di vederli, che non era colpa loro, che il posto non era sicuro come sembrava, e che quei mostri erano più forti e determinati di quanto potessimo pensare, ma non so con quale forza riuscii a sostener lo sguardo pieno di rancore di Sonia, che aveva perso un fratello, di Elena, che aveva perso una sorella e un cognato, o di Alice, la mia vicina, che un tempo era una così bella ragazza e ora appariva debole, emaciata, con i capelli arruffati, praticamente lo spettro di se stessa, profondamente delusa per non aver trovato la salvezza che cercava. Eravamo stipati come in una scatola di sardine nel nostro camioncino della speranza, con viveri per una settimana e nulla più che lo stretto occorrente per la sopravvivenza, disperati eppure ancora vivi. Potevamo, dovevamo reagire. Dopo circa 20 minuti di viaggio Marco accostò e subito aprì gli sportelli del furgoncino. Preoccupato mi guardai intorno: eravamo fermi su una strada laterale che costeggiava un piccolo corso d'acqua, davanti a noi il profilo di una struttura che non conoscevo, con un cancello chiuso da grosse catene. Marco si affrettò a spiegarci che si trattava di una discarica, e che mentre guidava era stato il primo posto a venirgli in mente, dato che era isolato e probabilmente chiuso. Senza indugio rompemmo il lucchetto che assicurava le catene, salimmo nuovamente sul furgone ed entrammo, guardandoci attorno con circospezione: non c'era assolutamente nessuno, solo cataste di vecchi elettrodomestici, container pieni di plastica e cartoni, e un piccolo ufficio per il personale, dove mi trovo ora e dove sto scrivendo questo resoconto di quanto è successo per mezzo del portatile trovato qui, dove peraltro la corrente é garantita da un generatore indipendente. È incredibilmente un buon posto, molto grande e protetto da mura alte almeno 2 metri e mezzo, con un cancello molto solido che abbiamo subito richiuso e contro cui abbiamo già piazzato una serie di vecchie lavatrici, e che nei prossimi giorni fortificheremo con gli ampi mezzi a disposizione. Infine, meraviglia insperata, abbiamo a disposizione una pompa, di quelle vecchio stampo che prende l'acqua da una falda sotterranea del fiume, e che ci fa sperare di poter realizzare un buon orto, così da poter avere da bere e da mangiare. Così da poter ricominciare. Ora smetterò di scrivere: c'è ancora molto da fare per trasformare questa discarica in un luogo dignitoso, ma intanto per ora, e non è poco, è un luogo sicuro. Spero di riuscire a ottenere il perdono per i miei genitori da parte di Sonia ed Elena, e di far ritrovare il sorriso ad Alice e...tante altre cose ancora. Spero, soprattutto, di aggiornare nuovamente questo resoconto, elencando quanto di buono siamo riusciti a fare per costruire questa nuova fortezza: se non lo farò significherà una cosa sola, e non la voglio scivere.
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