Ho realizzato solo ora di non avere ancora linkato sul blog l'ottima recensione di Il demone di Alessandro realizzata dallo staff della booksprint edizioni...beh eccola, leggetela se non l'avete ancora fatto!!
http://blog.booksprintedizioni.it/area-press/comunicati-stampa/item/406-la-ragazza-e-il-demone
Il Blog del Lance
venerdì 13 dicembre 2013
venerdì 6 settembre 2013
Ecco un secondo racconto riguardante lo stesso contest, miscelato con il tema zombie perchè si sa, i non morti stanno bene un po' ovunque, tranne che nel giardino di casa...buona lettura!
Sono
un vile
Tenendosi
costantemente a contatto con la parete del muro alla sua destra,
Mario P., trentaduenne ex idraulico confinato da otto mesi
nell'ospedale psichiatrico di Monza, giunse cautamente nella sala da
pranzo, non mancando, né mai l'aveva fatto, di gettare un'occhiata
ancora una volta in tutte le direzioni, alle finestre, alle porte e
poi ancora alle finestre.
«Mariano
Mariano...» esordì un ometto eccessivamente magro, ancora imberbe
nonostante avesse ormai superato da anni la soglia della pubertà e
con un paio di occhiali perennemente appannati «niente zombie anche
oggi, mi spiace! Niente vampiri, niente demoni, nessun mostro pronto
a entrare in questo covo di pazzi, quindi perchè non ti rilassi, non
ti siedi e aspetti che venga servito a tutti lo stufato con il
coniglio della vecchia Rita? Ah, una delle poche cose che mi
mancheranno di questo posto...»
«Io
m mi chiamo M Ma Mario!» protestò l'uomo, la cui balbuzienza era
notevolmente peggiorata durante i lunghi mesi di soggiorno in quel
luogo.
«Si,
certo, certo...ma Mariano mi diverte di più! E ora siediti, che non
ho tutto il giorno, e devo anche assicurarmi che Max Tentenna non
rovesci ancora il suo vassoio...» disse riferendosi a un altro
paziente allegramente rinominato con un nomignolo capace di
divertirlo.
Mario
obbedì subito, prendendo posto al tavolino posto esattamente al
centro della stanza: Danny, lo stagista infermiere, era una persona
malvagia, lo prendeva continuamente in giro, ma lui era l'unico, tra
tutte le persone là dentro, che non si sarebbe trovato impreparato
nel corso dell'imminente apocalisse zombie. Perchè quest'ultima era
inevitabile, di questo Mario ne era assolutamente convinto. Aveva
passato anni, a casa, accumulando scorte su scorte, erigendo muretti
e tramezze, attivando trappole e allarmi. Questo fino a quando la
sorella maggiore decise di farlo rinchiudere li dentro, di
appropriarsi della casa che era stata dei loro genitori e di venderla
a un ricco impresario ossessionato dai possibili furti che poteva
subire. Per Mario fu un incubo. La prima cosa che fece non appena la
stanza 4 del corridoio B divenne la sua nuova dimora fu studiarne la
posizione: quali erano gli ingressi, quali le possibili via di fuga,
quale fosse la capienza di cassetti e armadi... Poi provò a
immagazzinare tutto ciò che gli era possibile, raccogliendo
qualsiasi avanzo, ogni straccio, ogni giornale e ogni singola
cianfrusaglia sulla quale riusciva a mettere le mani. A un certo
punto, però, si imbattè in Danny. Non si trattava solo di un
ragazzo cattivo come quei tanti che aveva incontrato nella sua vita,
Danny si divertiva a enfatizzare le paure degli altri, li derideva e
punzecchiava, facendo tutto questo a scopo terapeutico, diceva, per
esorcizzare la paura. Mario lo odiava. Per fortuna, però, quello era
l'ultimo giorno per Danny: il suo periodo di stage era finito.
Con
questo pensiero in testa Mario gustò con gioia lo stufato, divorò
le patate di contorno e, dopo l'ora e mezza trascorsa nella sala
comune, si apprestò felicemente a ritornare nella sua stanza,
ovviamente badando sempre che nessun rumore potesse fornirgli il
minimo sospetto di essere seguito. Lui era sempre stato tranquillo,
non aveva mai dato problemi, e i medici non avevano assegnato nessuno
al controllo della sua persona: semplicemente, alle ore 22.00,
sarebbe dovuto passare l'infermiere a chiedergli se andava tutto
bene, e lui avrebbe risposto di si, e che stava per mettersi a
dormire.
Quella
sera, come sempre, proseguì nella rilettura dei suoi libri
preferiti: Manuale per sopravvivere agli zombie, Guida all'Apocalisse
Z, Manuale di sopravvivenza urbana, smettendo di leggere esattamente
a un quarto alle dieci, in modo da rielaborare quanto aveva letto per
poi dormire pochi minuti dopo il controllo, evitando così di stare
troppo sveglio la notte, oscura e piena di terrori.
Inaspettatamente,
alle 22.05 ancora nessuno era passato. Era piuttosto strano, ma la
cosa non lo preoccupò. Attese altri dieci minuti e ancora niente.
Ora era un po' agitato, nella sua mente iniziavano a farsi strada
ipotesi fantasiose, ma per la sua psiche decisamente non improbabili.
Altri 15 minuti, e Mario, oramai ridotto a un fascio di nervi, udì
un rumore, un rumore forte, chiaro, come se qualcuno avesse tirato un
calcio alla sua porta. In quel momento ogni sua paranoia divenne
certezza, avrebbe voluto urlare al suo psicologo che era tutto vero,
che quella sua convinzione era reale, anche se in verità non aveva
verificato nulla. Era solo un rumore. Con la forza della curiosità
più che del coraggio percorse i pochi passi che lo separavano dalla
porta, si chinò all'altezza della feritoia per il passaggio del cibo
di cui era dotata e vi appoggiò contro una mano, in attesa. Avrebbe
dovuto gettare uno sguardo dall'altra parte, ma non poteva, non ne
era capace, terrorizzato com'era all'idea che tutte le sue paure
potessero concretizzarsi. Attese ancora qualche minuto, durante i
quali gli parve di sentire ognuno dei rumori che tanto temeva: passi
strascicati, vetri sfondati, grida di terrore. Solo dopo alcuni
istanti di assoluto silenzio si decise a sollevare impercettibilmente
la feritoia, ruotando il collo fino ad avere una sottile visione del
mondo al di la della sua stanza, non sufficiente però a mostrargli
nulla. Sollevò ancora di qualche centimetro la lastra metallica,
avvicinò ulteriormente il suo occhio al passaggio creatosi e iniziò
a ripetere la sua abituale procedura: un primo sguardo alla sua
sinistra, nulla, un'occhiata alla sua destra e...
Ghaah!
Mario
cadde pesantemente sul pavimento, gli occhi sbarrati dal terrore, la
fronte imperlata di sudore. Uno zombie! Al di là della porta c'era
uno zombie, non era una sua illusione! L'aveva anche riconosciuto, si
trattava di Danny, l'infermiere. Aveva il volto coperto di sangue, e
non appena se l'era trovato di fronte aveva fatto scattare la
mascella, emettendo quel terribile grido; anche ora sembrava non
darsi pace, picchiando le mani contro la porta, continuando con le
sue urla disumane. Mario sapeva che tutto questo sarebbe successo, ma
ora era paralizzato dalla paura, incapace di alzarsi, di pianificare
una fuga, di reagire. Aveva passato anni a organizzare ogni dettaglio
nella sicurezza della sua abitazione, ma ora si trovava in quel
maledetto posto e non aveva avuto nè abbastanza tempo nè abbastanza
risorse per varare delle soluzioni valide. Ben presto si accorse che
le sue emozioni gli avevano già fatto perdere il controllo delle sue
funzioni corporali, aumentando a dismisura quel senso di opprimente
angoscia che stava velocemente impadronendosi di lui. Tremava,
ansimava, sudava. Il suo cuore aveva cominciato a battere
all'impazzata, i rumori provenienti dal corridoio sembravano sempre
più inquietanti, i cardini della porta più deboli e malmessi. Si
accorse che in fondo, anche se in quel momento fosse stato a casa
sua, circondato dalle sue provviste, le sue trappole e le sue armi,
non sarebbe mai stato pronto, e questo perchè era un vigliacco, un
debole, un vinto. Provò a girarsi per raggiungere il letto,
desiderando nascondersi sotto le coperte come quando era bambino, ma
ancora una volta si accorse di non poterlo fare. Il cuore batteva
così forte che si convinse di come la sua gabbia toracica non
sarebbe stato in grado di contenerlo. D'un tratto sentì un dolore
lancinante nel petto, come un fortissimo crampo al cuore: ansimò,
volse ancora uno sguardo in direzione della porta, quindi ricadde sul
pavimento, esanime, morendo con la consapevolezza di essere un vile.
Pochi
minuti dopo Danny aprì la porta della stanza, rassentandosi il viso
dall'abbondante ketchup e dal leggero trucco che aveva usato per
preparare quello scherzo, con la collaborazione di colleghi e
inservienti, per festeggiare con un po' di sadica goliardia il suo
ultimo giorno di stage.
Non
avrebbe lavorato come infermiere mai più.
mercoledì 4 settembre 2013
Il ritorno
Dopo molto tempo rieccomi con un nuovo racconto per un contest; il tema? la normalità della vita in manicomio... Eccovelo!
Io
non vedo, io non sento
All'attenzione
della gentilissima Miss. Wettington, Direttrice dell'Istituto
Psichiatrico St. Paul
Direttice
carissima,
La
prego anzitutto di accettare il modesto omaggio floreale che mi sono
permesso di farLe pervenire, per l'infinita gentilezza con la quale
mi ha accolto, sia pur temporaneamente, nel Suo istituto. Parlo di
un'esperienza temporanea in quanto, come Lei certamente saprà, la
mia presenza nella sua struttura non ha ragione di protrarsi per
molto tempo ancora: il lieve stato confusionale nel quale mi ero
ritrovato a essere è oramai completamente superato, grazie
all'efficace confronto con i capacissimi medici sui quali può
contare una struttura del livello della St. Paul. Le chiedo,
pertanto, una riesamina del mio caso, affinchè gli eccellenti
servizi dell'Istituto di cui Lei è a capo possano essere offerti
alle persone che più ne necessitino.
Cordialmente,
H.P.
Rutheford
Thomas
Reed, trentaseienne avvocato del Maine con la sventura di essere
stato assegnato d'ufficio al caso del Signor Rutheford, rilesse
attentamente quanto egli stesso aveva scritto, nel disperato
tentativo di gettare una parvenza di rispettosità, diligenza e
ossequiosità laddove il suo assistito altro non mostrava che
arroganza, sicurezza e follia. Nemmeno lui sapeva perchè mai avesse
preso tanto a cuore quell'uomo, ma al momento aveva deciso di
rischiare, facendo passare quella richiesta scritta di suo pugno come
una lettera proveniente direttamente dal suo assistito. Non che
quest'ultimo non ci avesse provato, anzi, tra le mani di Reed si
trovavano ora quasi una dozzina di lettere traboccanti richieste di
liberazione, invocazioni a un ritorno a casa, assicurazioni circa la
propria sanità mentale. Il problema consisteva nel fatto che H.P.
Rutheford, pur non essendo in alcun modo pericoloso per la società
-di questo Reed ne era convinto- al momento non poteva assolutamente
essere definito come una persona nel pieno controllo delle proprie
facoltà mentali. Era stata quell'ultima lettera, quella che aveva
stracciato subito dopo averla letta, a convincerlo che quell'uomo
doveva ritornarsene nella sua casa, lontano da tutto e tutti, uscendo
così definitivamente dalla sua vita. Leggere quelle righe deliranti
l'aveva turbato, tanto che le parole di quell'uomo si erano incise
nella sua mente nonostante avesse immediatamente ridotto a brandelli
i fogli sui quali erano state scritte, al punto da poterle recitare a
memoria alla perfezione:
All'attenzione
della Signora Wettington, Direttrice dell'Istituto Psichiatrico St.
Paul
Signora
Wettington, Le scrivo per informarLa dei progressivi e costanti
miglioramenti del mio stato di salute, non potendo essere certo che
questi dati non Le giungano alterati da alcuna fonte. Le rammento
inoltre di come, a dispetto di quanto dichiarato dal personale, io
non ho mai richiesto alcun materiale che possa essere considerato
"strano": solamente un rosario, per le ore di preghiera,
alcune piccole campane dalla mia collezione privata, per l'armonia
che il loro suono mi induce, e un sacchetto di sale grosso, il cui
effetto, una volta applicato con l'ausilio di impacchi sulla mia zona
lombare, è di comprovata efficacia. Un uso diverso da parte mia di
questi oggetti scade semplicemente nella congettura. Mi trovo inoltre
costretto a segnalare la facilità di suggestione per la quale si
contraddistinguono gli inservienti addetti alla pulizia dell'ala
dell'edificio in cui attualmente risiedo, rammaricandomi delle false
notizie che costoro possano avere diffuso. Le confermo, dunque, che
non vedo alcuna ombra, la notte, nella mia stanza, né tantomeno vi
comunico in alcun modo. Le urla che taluni dichiarano di aver sentito
nel cuore della notte non sono altro che l'amplificazione e
l'esagerazione dell'effetto di alcuni incubi avuti recentemente a
causa della tensione accumulata per l'eccessivo stress dovuto
a questa situazione. Non vedo ombre nascondersi negli angoli bui
della mia stanza, non le vedo strisciare fuori con esasperante
lentezza, nè osservo con orrore le loro lunghe dita tendersi
fino ad afferrarmi. Non sento il loro respiro dietro al mio orecchio,
non percepisco il nero livore per il cuore che mi batte nel petto né
la cieca rabbia dovuta alla loro incapacità di ottenere ciò che più
desiderano: tutto questo non è che parte dei miei incubi, e il mio
rammarico consiste nell'essermi confidato con persone tanto infantili
da avere diffuso simili sciocchezze come parte di un'esperienza reale
da me vissuta. Le ripeto, io non vedo mostri, nè ombre o demoni, non
ne sono ossessionato al punto di richiederLe certi oggetti nella
convinzione che essi possano proteggermi contro queste creature di
fatto inesistenti, tranne che nei miei incubi.
Fiducioso
nelle Sue capacità di valutazione,
e
ringraziandoLa per il suo tempo,
H.P.
Rutheford
Per
Rutheford, Reed lo sapeva, le ombre erano più che mai reali e le sue
grida, nella notte, avevano qualcosa di terrificante. Quello che più
aveva spaventato l'avvocato era uno stralcio di foglio che lo stesso
Rutheford si era premurato di barrare affinchè non venisse inserito
nella lettera alla direttrice dell'ospedale psichiatrico, forse in un
raro lampo di lucidità. Raccontava nei minimi dettagli un sogno che
dichiarava di avere fatto, chiedendo alla Wettington di aiutarlo
nella sua interpretazione, confidando nelle sue capacità. Reed lo
teneva ancora tra le mani, rabbrividendo nell'immaginare come
Rutheford avesse vissuto quell'esperienza, provando, per un secondo
appena, a viverla sulla sua pelle.
Questa
sera, dopo la porzione di ottimo stufato servito dalla Señora Maria,
ho avvertito un lieve giramento di capo, provvedendo a coricarmi
anzitempo, fatto a cui riconduco il sonno animato da incubi che ne è
conseguito. Dal momento in cui incubi di tale risma sono
frequentissimi, Le vorrei chiedere una sua interpretazione al
riguardo, un confronto per cercare in queste proiezioni illusorie i
veri problemi per cui, nel recente passato, una cattiva gestione
dello stress mi ha portato ad essere temporaneamente ospite del suo
Istituto. Dopo pochi minuti, così almeno mi è parso, iniziai a
sentire gli occhi molto, molto pesanti, eppure mi rifiutavo di cedere
al sonno. Notai allora delle difformità nelle ombre proiettate dalle
luci delle pareti, ombre che sembravano allungarsi e poi restringersi
come se ogni oggetto (la lampada, l'orologio, la tenda..) venisse
scosso da un forte vento, creando una moltitudine di onde nere, molto
più scure di quanto le ombre mi apparivano solo pochi istanti prima.
Tutte queste difformità createsi iniziarono poi a sciamare in un
unico punto, riversandosi sulla parete opposta, formando prima un
cerchio, poi qualcosa di simile a una forma, senza che la si potesse
definire tale, ad ogni modo. Questa figura -la definisco figura per
aiutarla a comprendere meglio il mio caso- iniziò gradualmente a
espandersi, fino a invadere le pareti laterali e il soffitto, e a un
certo punto iniziò a respirare. Dico respirare, ma non si trattava
di un respiro vero e proprio, era qualcosa di strozzato e sgraziato,
di fetido pur essendo inodore. L'ombra iniziò a discendere su di me,
aumentando l'intensità di quell'aberrazione che in precedenza ho
chiamato respiro, e vidi distintamente 2 mani, scarne e putride,
allungarsi in direzione del mio petto, divenendo solide rispetto alle
ombre che prima erano e allora si, allora ho urlato, al culmine
dell'incubo, risvegliandomi in un letto di sudore, sentendo sulla mia
pelle il contatto con quelle mani fredde, sul mio collo la condensa
del suo respiro.
Rutheford
non concludeva questo racconto con la richiesta di un aiuto, lo
troncava e basta, barrandolo in seguito affinchè Reed capisse di non
doverlo fare arrivare alla direttice, anche se era solo la storia di
un incubo. Questo perchè l'uomo dichiarava che era solo un brutto
sogno che si ripeteva, perchè dichiarava di non vedere, di non
sentire, ma Reed sapeva.
Rutheford
vedeva.
Rutheford
sentiva.
martedì 18 giugno 2013
lunedì 10 giugno 2013
Nuovo racconto scritto per un contest a tema fantasy, con il ritorno del bambino immerso nelle paranoie delle campagne pugliesi...a presto per qualcosa a tema un po' più libero!
Pasto o progenie
«Mi raccomando caro, non dare problemi ai nonni, ascoltali e non dimenticarti dei compiti delle vacanze, intesi? Ah e non esagerare con i dolci che ti farà la nonna, lo sai che se ne mangi troppi poi stai male. E...»
«Ma si mamma, si, d'accordo! Guarda che non sono più un bambino!» sbottò Francesco, nell'esuberanza dei suoi 13 anni.
«Lo so tesoro, lo so: per questo io e il nonno abbiamo deciso che quest'anno lo aiuterai in campagna, e se farai un buon lavoro quando tornerai a casa tra 2 mesi potresti trovare quel gioco che volevi, quella x qualcosa...beh papà lo sa come si chiama quell'affare...ma, ripeto, solo se il nonno mi dirà che sei stato bravo...»
«Davvero? Grazie mamma, grazie!» Esultò Francesco, come se la console già lo attendesse a casa, dopo quei mesi estivi passati dai nonni materni in Puglia, e gli fosse già lecito fantasticare su quali giochi acquistare e quali altri avrebbe potuto farsi prestare dai cugini.
Il resto del viaggio Francesco lo trascorse proseguendo nelle sue fantasticherie e solo parzialmente ricordandosi i suoi doveri: anche oziando per la maggior parte del tempo, pensò, la mancanza di amici e intrattenimenti (i nonni non avevano neppure la televisione) lo avrebbero costretto a dedicare almeno un paio d'ore al giorno agli odiatissimi compiti delle vacanze. Trascorse le quasi 3 ore necessarie per raggiungere il paesino dei nonni sito nello sperduto entroterra foggiano, Francesco si riscosse da quel costante senso di sonnolenza che abitualmente trasmettono i lunghi viaggi in auto, aprì la portiera e respirò a pieni polmoni quell'aria così salutare, a detta di tutti, tanto da assicurare una così lunga vita a tutti gli abitanti del paesino, noto per la loro longevità. Vide presto una porticina aprirsi a pochi metri da lui, dietro la quale apparirono la figura di un uomo alto e magro, con un bel paio di baffi bianchi e un cappello di stoffa in testa a nascondere la calvizia, e quella di una donna bassa, piegata dall'età e costretta a servirsi di un bastone per muoversi, ma con un volto ancora tanto vitale e caratterizzato da 2 occhi agilissimi, ai quali nulla sfuggiva: i suoi nonni.
«Francesco!» esclamarono all'unisono vedendolo, non trattenendosi dal dispensargli carezze, pizzicotti e baci sulle guance.
Francesco subì l'attacco senza protestare -a che sarebbe servito?- attendendo con pazienza che l'attenzione dei nonni si spostasse dal nipotino alla figlia, ottenendo finalmente una tregua. Dopo essere entrati in casa, aver mangiato abbondantemente mentre sua mamma parlava con i nonni ed essersi concesso un riposino, Francesco venne infine risvegliato dal saluto della madre, pronta a ripartire per tornare a casa prima dell'imbrunire, ma non prima di avergli ribadito le solite raccomandazioni. Quando se ne andò Francesco scoprì che anche il suo relax era terminato, o almeno stava per farlo: il nonno gli aveva annunciato che l'indomani sarebbe dovuto andare in campagna insieme a lui, per aiutarlo nella raccolta delle olive. Lui cercò di rimandare, di ricordare ai nonni che in fondo era appena arrivato, ma il nonno fu irremovibile: era il periodo giusto per la raccolta, e aiutarlo nell'operazione era uno dei lavori più adatti per un bambino della sua età, così che Francesco non potè fare altro che arrendersi, e prepararsi alla levataccia del giorno dopo.
Quel mattino la sveglia suonò alle 5 e mezza per Francesco, anzi, non fu esattamente la sveglia a costringerlo ad alzarsi, ma la voce inamovibile del nonno, il quale non gli diede nemmeno il tempo di fare colazione: «Pane con un pezzo di formaggio mentre camminiamo» gli disse «come è sempre stato.»
Con passo incerto Francesco si preparò a sostenere le lunghe falcate del nonno, avvezzo da tutta una vita a fare quel percorso di circa 5 chilometri tutte le mattine, più altri 5 la sera, dopo un'intera giornata di duro lavoro nei campi.
«Da quanti anni la nonna non ti accompagna più in campagna?» domandò sperando di fiaccare il suo ritmo con un po' di conversazione.
«Mmh...4 anni...»
«Farai fatica, tutto da solo...» commentò Francesco, sperando di costringere il nonno a qualcosa di più articolato come risposta.
«No, non sono solo: c'è il pecoraio che mi da una mano quando serve, in cambio del permesso di attraversare le mie terre con le sue pecore. Per il resto, anche quando la nonna stava bene, ero sempre io a fare i lavori più pesanti, ci sono abituato.» fece lui.
«Il pecoraio?!» esclamò Francesco, stupefatto, ricordandosi di quella figura quasi grottesca, grande e opulenta, con quella barba folta e nera, quelle sopracciglia spesse e minacciose e quella voce profonda che tanto timore era capace di trasmettergli, le poche volte che lo aveva incontrato.
«Siamo d'accordo per diversi affari: io compro da lui il cacio, lui prende da me i conigli, e così via. Oggi ci sarà anche lui a darci una mano, in cambio di qualche bottigli d'olio d'oliva.» Spiegò il nonno.
Francesco rimase in silenzio, non osando dire al nonno di quanto il pecoraio lo mettesse a disagio, sapendo che l'avrebbe certamente sgridato, dicendogli di non giudicare le persone dal loro aspetto, che non era certo un uomo abituato a trattare con i bambini e altre cose ancora. Forse il nonno aveva ragione, ma quell'uomo a lui metteva i brividi, e non c'era nulla che potesse fare per evitarlo.
Camminarono a lungo, e mentre il nonno procedeva rapido, Francesco arrancava, fino a che non si ritrovà costretto a chiedere una pausa, per riprendere fiato e dare un momento di tregua ai suoi piedi doloranti, attirandosi un sorriso beffardo da parte del vegliardo.
«Senti nonno...ma il pecoraio sa che oggi ci sarò anche io con voi?» Domandò dopo aver ripreso un po' di fiato.
«Mmh? Si, si...A dire il vero è stata una sua idea...» rispose.
«Come una sua idea? Che intendi dire?»
«Qualche tempo fa stavamo lavorando insieme nei campi e gli ho parlato del fatto che quest'anno tua mamma voleva che ti facessi lavorare un po', dato che hai già una certa età, e lui mi ha suggerito di fatri partecipare alla raccolta delle olive...si ricordava di te, e anch'io ero d'accordo con lui di non poterti mettere a zappare o a tagliare la legna...sei un ragazzo di città, per certi lavori non sei portato...» concluse il nonno.
Francesco non sapeva se ritenersi maggiormente offeso dal fatto che un semisconosciuto avesse pianificato il suo lavoro estivo o dall'insulto velato del nonno nei confronti della sua forma fisica: certo non era cresciuto a pane e pomodoro macinando inoltre chilometri su chilometri per andare ad aiutare con i lavori nei campi come aveva fatto suo nonno, ma erano altri tempi.
«Avanti. Forza che siamo quasi arrivati.» Sentenziò il nonno mettendo fine alla sua pausa.
Così il cammino riprese. Poco dopo giunsero a una deviazione sul sentiero principale, si inerpicarono su uno stretto viottolo in salita, e infine arrivarono alla destinazione: uno sgangherato capanno, che il nonno chiamava masseria, circondato da maestosi ulivi carichi di frutto.
«Eccoci! Oh compare!» esclamò il nonno alla vista di una figura che fino a quel momento sembrava celata tra gli alberi e l'erba bruciata dal sole: il pecoraio.
«Ricordi mio nipote Francesco, si...ma non perdiamo tempo, gli ulivi sono pieni quest'anno, belli pieni, e da fare ce n'è...vieni Francesco, prendi questo cesto e raccogli quanto più riesci dai rami a cui arrivi, al resto pensiamo noi...via via!» disse il nonno in preda a una fastidiosa vitalità.
Francesco eseguì gli ordini, raccolse la cesta e iniziò a lavorare, ma non perse mai di vista il pecoraio, coltivando per tutto il tempo la convinzione che lo stesse anch'egli a sua volta osservando. Non gli piaceva, non gli piaceva per niente. Praticamente non parlava, -neppure il nonno, comunque, il quale badava solo a lavorare- ma ogni tanto emetteva un rumore, facendo schioccare la lingua sul palato, capace di fargli saltare i nervi. Non sapeva il perchè covasse questo astio nei confronti dell'uomo, ma era come una specie di direttiva inconscia del suo cervello, un input che gli ordinava di diffidare, osservare ed evitare. Passò diverse ore in quel modo, lavorando e osservando, sudando e immaginando.
Sapeva che il pecoraio non era un uomo sposato, che era più vecchio di suo nonno anche se non lo dimostrava per niente, con quella barba e quei capelli neri e abbondanti, che aveva una casa in paese, non lontana da quella dei suoi nonni, ma che spesso dormiva nella sua masseria, non molto diversa da quella del nonno, ovvero scomoda e isolata, con un pagliericcio pensato più che altro per un breve riposo dopo una mattinata di duro lavoro. Da questi dati elaborò diverse teorie, condite dalla sconfinata fantasia di cui tanto andava fiero, e tra tutte si concentrò su quella del brigante: la nonna gli aveva raccontato tante storie su di loro, ce ne erano di buoni e di cattivi, ma quelli cattivi erano terribili, e i nomi di Crocco, Chiavone, Mammone, Bizzarro e Fra'Diavolo ancora lo tenevano sveglio, la notte, ripensando alle terribili storie su di loro che aveva sentito.
Fossero stati altri tempi, Francesco si sarebbe detto sicuro che il pecoraio fosse in realtà un brigante. Se lo immaginava -eccome se se lo immaginava- a nascondere tesori nelle bare gettando via i cadaveri, a mangiare carne cruda insieme ai diavoli, a bere vino dal teschio dei rivali uccisi dopo averli aperti da parte a parte con un coltellaccio simile a quello che portava attaccato alla cintura. E poi, ancora, a cuocere le teste per ricavarne i teschi, ricavandone un'oscena poltiglia da dare in pasto ai suoi cani, ai suoi 2 enormi cani lupo dal pelo lucido, tanto docili ai suoi comandi. Improvvisamente Francesco trattenne a stento un conato di vomito, domandandosi da dove potessero provenire dei pensieri tanto torbidi, quindi alzò lo sguardo, cercando di capire se qualcuno si fosse accorto di quel suo gesto, e vide che il pecoraio lo stava fissando, dritto negli occhi. Si voltò subito, e con maggiore lena si rimise a raccogliere le olive, sforzandosi di ricacciare via quell'immagine del calderone ricolmo di teste umane, e del pecoraio sogghignante con il suo macabro calice ricolmo di vino.
Lavorò come mai, forse aveva fatto nella vita, fermandosi per una breve pausa solo per mangiare qualcosa con il nonno (mentre il pecoraio pranzava nella sua masseria, da li poco distante) e poi riprese a lavorare alacramente, senza perdersi in strane paranoie, fino a pomeriggio inoltrato, mostrando un'energia che lasciò tutti di stucco, lui compreso. Solo a quel punto si fermò, esausto, guardando il nonno con un'espressione allo stesso tempo fiera e supplice: aveva appena guardato l'orologio, e sapeva che mancava poco all'orario prefissato per la ripartenza.
«Inizio a rimettere tutto a posto nonno?» Chiese nella speranza di ricevere un assenso e magari anche dei complimenti per il buon lavoro svolto.
«Eh? No, no...ne parlavo prima con il compare...» fece il nonno «e siamo entrambi d'accordo che sarebbe un peccato smettere adesso, dato che ancora poco e avremmo finito tutto il lavoro...passeremo la notte in masseria, qualcosa da mangiare ce l'abbiamo...»
«Cosa? In masseria? No!» sbottò Francesco, per nulla contento di quella decisione.
«Di che hai paura? Non sai quante volte abbiamo dormito qui io e la nonna...c'è un letto, una coperta...di topi non ce ne sono, che la porta la teniamo sempre chiusa e buchi nei muri non ce ne stanno...tranquillo, c'è il nonno con te: vedrai, ti piacerà passare la notte in campagna!» Esclamò infine il nonno, con un sorriso ineffabile.
Francesco non potè far altro che rassegnarsi a fare come gli veniva detto, chiedendosì però perchè mai il nonno era così influenzato dal pecoraio, quando non lo era mai stato, che lui si ricordasse.
Presto, molto prima di quanto si aspettasse, il tramonto tinse la campagna di tutti quei colori che non era possibile vedere in città, varie sfumature di arancio, rosso e blu sospese sopra al colore ramato dei campi.
Dovevano essere circa le 21, e Francesco si ritrovò improvvisamente stanco e affamato. Entrò nella masseria quasi senza accorgersene, frugando in quegli angoli dove sapeva che il nonno conservava barattoli pieni di fichi secchi, e ne divorò a piene mani, senza ritegno: il lavoro era stato molto più duro di quanto immaginava, ma almeno aveva dimostrato a suo nonno che poteva farcela, e questo bastava a renderlo orgoglioso e fiero. Ai fichi seguirono dei pomodori sott'olio, un po' di formaggio e del pane raffermo, ma non si poteva pretendere, dopo di che non ci fu nemmeno il tempo di fare conversazione, tale era la stanchezza. Il nonno ebbe l'accortezza di scuotere accuratamente le coperte, assicurandosi che non vi fossero annidiati degli scarafaggi o, peggio, degli scorpioni, quindi invitò il nipote a dormire: l'indomani si sarebbero alzati alle prime luci dell'alba, per terminare definitivamente il lavoro e tornare a casa per pranzo. Francesco si coricò a fianco del nonno, scegliendo il lato più vicino al largo finestrone, provando ad addormentarsi fissando il chiarore della luna.
Chiarore di luna piena.
Non riuscii ad addormentarsi subito: la scomodità del pagliericcio, il respiro pesante del nonno, la stranezza di trovarsi a dormire in mezzo alla campagna e non nel suo letto, come la sera prima, eppure il vero problema era un altro: la luna. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella sfera che mai neela vita gli era sembrata tanto grande, tanto magnetica. Era disteso su un pagliericcio di una masseria di campagna, ma provava la sensazione di trovarsi altrove, perfino di sentire degli ululati perdersi nella notte, come se si trovasse dentro a un film. Poi gli ululati si fuserò in uno solo, profondo e distinto, inequivocabile. Per un momento, solo per un attimo, Francesco si irrigidì nelle coperte, ma, inaspettatamente, non provò paura: un ululato squarciava la notte, la fonte poteva essere soltanto a pochi chilometri dal suo letto, eppure lui non aveva la benchè minima paura. E questo era strano, molto strano: la paura solitamente si impossessava di lui con estrema facilità.
L'ululato saliva e scendeva di tono, e ora era vicino, vicinissimo: il lupo si stava muovendo. Francesco continuava a fissare la luna, rapito da un magnetismo mai provato, e quasi non si accorse del rapido movimento, della figura che in un lampo passò davanti alla finestra, più rapida di un qualsiasi animale. Solo una sensazione distante di quel passaggio venne colto dai suoi sensi, ma tanto bastò a mettere in moto la sua fantasia: cos'era? Poteva davvero essere un lupo? E se così era, perchè il pecoraio non si era precipitato alla masseria per avvisare il nonno? Si voltò cercando la sua figura confortante, desiderando scuoterlo e svegliarlo, anche se lo avrebbe certamente rimproverato, ma non vi riuscì. O meglio, riuscì a voltarsi, ma le braccia rimasero immobili, la bocca serrata: era come paralizzato. Rigirò ancora il collo da una parte all'altra, chiedendosi se forse stava semplicemente sognando, uno di quei sogni strani in cui si è bloccati da qualche parte o si cade nel vuoto, eppure non gli sembrava di essersi mai addormentato quella notte. L'ululato nel frattempo era ripreso, con ancora maggiore intensità: sembrava che il lupo si fosse piazzato esattamente al di là della porta, ma, ancora, lui non aveva paura, non riusciva ad averne. Poi accadde qualcosa di ancora più strano: l'ululato iniziò ad attirarlo a sé. Dapprima realizzò semplicemente di essere in preda a un'inconsueta curiosità, poi questa sensazione si intensificò fino a diventare insopportabile brama di alzarsi dal letto, e così fece, non potendovi più resistere. Camminò con un passò ritmato, meccanico, quasi come se fosse sotto l'influsso di una malia, fino alla porta, poi strinse la chiave tra il pollice e l'indice e la ruotò fino a far scattare la serratura. Ebbe un attimo di esitazione, poi la spinse, mentre una ventata dell'aria fresca della notte lo colpiva sul viso.
Ciò che vide lo lasciò senza fiato. A pochi metri, accanto all'ulivo più vecchio della proprietà, si ergeva una creatura enorme, ritta sulle zampe, con un manto argenteo che sembrava catturare i raggi lunari, il volto di un lupo e gli occhi di un falco. Appena lo vide la creatura ululò nella notte, e a Francesco parve impossibile che il nonno non si svegliasse, eppure non sentì alcuna voce dall'interno della masseria: doveva essere qualcosa di magico che non poteva comprendere a fare dormire il nonno, e quel qualcosa proveniva da quella creatura.
Un lupo mannaro. Il pecoraio. Doveva essere lui. Non era dunque un brigante, non era uno di quegli uomini che nei racconti della nonna razziavano i villaggi, violentavano le donne e si mangiavano i bambini. Era peggio, molto peggio. Era consapevole di tutto questo, sapeva che quella figura non sarebbe dovuta esistere eppure si trovava di fronte a lui, forte e selvaggia, sapeva che avrebbe dovuto tremare di terrore, eppure non riusciva a farlo. Non riusciva a provare paura.
Il suo corpo iniziò ad avanzare verso l'enorme licantropo che ululava alla luna, e ancora questa sensazione non riusciva a manifestarsi. Solo 2 concetti riuscivano ad attraversagli la mente: sarò per lui pasto o progenie?
Un passo
Pasto o progenie?
Ancora un passo
Pasto o progenie?
Ancora un ultimo
Pasto o...
giovedì 23 maggio 2013
Eccoci con un nuovo racconto scritto per un contest a tema fantasy...questa volta si parla di folletti! A voi...
In un vortice d'ali
«Ti dico che non l'ha fatto di proposito: potremmo lasciarlo stare, solo per questa volta!»
«Io sono sicuro che l'abbia fatto apposta invece!» Esclamò Puk.
«Non ne hai le prove: per quanto ne sappiamo poteva semplicemente...»
«Cosa? Cercare di distruggere la tana di un tasso? Perchè non lo giustificherebbe Prik, non lo giustificherebbe affatto! Ahi ahi ahi abbiamo un colpevole...» concluse il folletto, certo della colpevolezza del ragazzo.
«Forse non voleva affatto "distruggere", ma era solo...»
«Curioso? Oh certo, era solo curioso, beh allora lasciamo stare, non c'è alcun problema...» esclamò Puk, con ironia.
«Davvero? Per fortuna, grazie Puk, non potevo proprio sopportare l'idea di fargli del male: guarda come dorme beato: questo vecchio tronco per lui già abbastanza come cuscino, e...»
«Dorme perchè siamo stato noi a volerlo addormentato, e non si sveglierà fino a che noi non vorremo che si svegli, ti è chiaro Prik?»
«Ma io...»
«Non volevi farlo? Non sapevi cosa stavi facendo? Mi disgusti. Cosa credi che ti abbia tenuto in vita fino ad ora?»
«Cosa vorresti dire Puk? Non capisco!» Protestò il folletto.
«Sono stato io Prik, è solo merito mio se uno sciocco come te oggi vive ancora! Che fine hanno fatto i nostri fratelli a Colle Artigno? E quelli di Bosco basso? E Sid?»
«Non parlare di Sid.» Ingiunse Prik, fattosi improvvisamente scuro in volto.
«Oh invece te ne parlo, eccome. Noi non possiamo venire scoperti dall'uomo: se questo accade ci trasformiamo subito in una farfalla, così che gli occhi di un umano non possano mai posarsi sul corpo di un folletto. Questa è la regola, in questo consiste l'ammonimento dei padri, e ciascuno di noi ne è a conoscenza. Nonostante ciò Sid credeva che si trattasse soltanto di una leggenda, e volle rivelarsi a quel bambinetto che si era preso tanto a cuore, il figlio di quel pescatore, con quei suoi capelli biondi e quegli occhi curiosi, a cui non mancava mai di fare abboccare all'amo le trote più grasse, badando bene che le prendesse senza farle scappare...»
«So benissimo cos'è successo a Sid. Ora smettila.» Ingiunse ancora Prik, il quale aveva oramai definitivamente abbandonato il consueto sorriso, in favore di un aspetto nuovo, minaccioso, molto più consone al temperamento focoso del fratello.
«Oh no no no, tu non sai. Credi di sapere, ma sono certo che tu abbia dimenticato: poi mi darai ragione, credimi. Lascia che prosegua il mio racconto. Sid aveva preso in simpatia il piccolo, nella giusta stagione lasciava che trovasse funghi e lumache, castagne e bacche, facendo comparire il tutto sul suo sentiero mentre rimaneva nascosto dietro il tronco di un albero.»
«Tutti noi lo facciamo!» Protestò Prik.
«Vero, tutti noi a volte lo facciamo, ma occasionalmente, se ci va, e mai favoriamo per 2 volte la stessa persona. Quelli semmai sono i dispetti, anche se questo rientra più nella mia natura piuttosto che nella tua, ma non di questo voglio parlare. Sid aveva preso così tanto in simpatia il piccolo umano da seguirlo fino a casa, favorendolo ogni volta che poteva...»
«Mentre non avrebbe mai dovuto allontanarsi dalla boscaglia, lo so...» aggiunse Prik.
«Non solo, fratello, non solo! Sid pensò che il bambino sapesse di lui, per via dei troppi piccoli "eventi fortunati" nei quali era incorso, così che ogni giorno crebbe sempre più in lui il desiderio di rivelarsi dando conferma al suo protetto dei quello che aveva supposto, nonostante l'ammonimento che costituisce praticamente l'unica nostra regola!»
«Lui non credeva che fosse vero: pensava si trattasse solamente di una ridicola leggenda!» esclamò Prik, con gli occhi rossi di pianto e i piccoli pugni serrati cercando di reprimere il dolore.
«Non lo era affatto, però. Sid decise di mostrarsi, un giorno, e non appena gli occhi del bambino si incrociarono con i suoi si trasformò in farfalla, prima che l'umano potesse essersi reso conto di quanto era successo. Probabilmente gli occhi per quell'attimo gli pizzicarono come se fossero stati colpiti da un granello di polvere portato dal vento, e un istante dopo il nostro Sid gli apparve sottoforma di una farfalla variopinta, la più bella che avesse mai visto...»
«Lo ricordo benissimo, noi...noi...»
«Noi eravamo lì Prik, lo so. So che non puoi avere dimenticato.» affermò infine Puk, appoggiando una mano sulla spalla del fratello «Sid è volato via, battendo le sue ali arancio e nere fino a scomparire dal nostro orizzonte, forse conscio del suo nuovo status, forse no. Abbiamo interrogato il vento, chiesto di lui alla terra e al corso dei fiumi, ma è scomparso, dimenticato dalla natura stessa come se non ne avesse mai fatto parte. Il suo ricordo si è ovunque perduto nell'oblio, tranne che nella nostra memoria.»
Prik non riuscì a rispondere al fratello, non subito almeno. Prima cercò invano qualcosa nelle tasche lacere dei suoi braghini di tela consunti da innumerevoli anni di onorato servizio, quindi si risolse ad usare le morbide ciocche della sua folta barba canuta per ripulirsi il viso dalle lacrime che oramai avevano smesso di cadere, lasciando posto soltanto a un'infinita tristezza. A quel punto si mise a sedere, sopra al grosso masso dal quale fino a quel momento lui e il fratello stavano osservando il regolare e ritmato respiro di quel giovane umano addormentato. Quanti anni poteva avere? 14? 16? Lui non era molto bravo a riconoscere l'età degli umani. Eppure quel ragazzo gli piaceva, anche lui era biondo e pieno di vitalità, proprio come il bambino che era costato la vita al suo amico Sid.
«Perchè mi hai costretto a ricordare, fratello?» Si decise infine a domandare.
«L'ho fatto per te, Prik. Questo ragazzo umano somiglia a quel bambino, vero? So che eri buon amico di Sid, so che con lui condividevi molto più di ciò che hai mai condiviso con me, ma è normale, è la nostra natura, noi siamo fratelli, e quindi...»
«Siamo come acqua e roccia, come tramonto e aurora. Lo ricordo, lo diceva sempre nostro padre.» Disse Prik concludendo la frase del fratello, ma ignorando dove questi volesse andare a parare.
«Sai dunque che è normale essere tanto diversi, e tu hai sempre trovato affinità con Sid e non con me, hai sempre percorso le sue orme e non le mie, nonostante io sia tuo fratello maggiore, ma te lo ripeto, è normale, anche nostro padre lo sapeva. Mi preoccupa però una cosa...»
«Dimmi cosa e smettila di girarci intorno allora! Cosa vuoi dirmi? Cosa?»
Prik aveva urlato la sua rabbia a piene mani, afferrando il fratello per le spalle, scuotendolo per cercare di mettere fine a quel tuffo forzato in ricordi per lui tanto dolorosi senza che ne avesse ancora compreso il motivo.
«Hai agito con lui nello stesso modo in cui avrebbe fatto Sid.» Disse Puk indicando il ragazzo addormentato grazie alle loro arti magiche «Anche Sid avrebbe finto di non capire che se un umano cerca di distruggere un nido, qualsiasi creatura vi ci abiti, lo fa per malvagità e non per curiosità. Gli umani sono gli unici ad avere questa prerogativa, e ne abusano più di quanto né tu né lui abbiate mai compreso: loro sono malvagità. E sono anche arroganza, avidità, prepotenza...»
«Non è questo che vuoi dirmi: ti ho chiesto di smetterla di girarci intorno. Smettila e dimmi quello che volevi dirmi davvero, e dimmelo ora.» Sentenziò un Prik trasformato dalla furia, quasi mostrasse le nerborute braccia del fratello, insolite per un folletto, piuttosto delle sue gracili membra che non avrebbero saputo spaventare nemmeno uno scoiattolo.
«D'accordo Prik, d'accordo, ora te lo dirò chiaramente: ti sei mostrato troppo indulgente con questo ragazzo, sospetto che ti riporti alla mente il ricordo di Sid e del bambino che tanto aveva preso a cuore, e infine temo che tu possa decidere di mostrarti a questo ragazzo, per trasformarti anche tu in farfalla e seguire la sorte dell'amico a cui tanto eri legato!» Esclamo Puk d'un fiato.
Prik osservò il fratello incredulo: erano davvero questi i suoi timori? Perchè mai avrebbe dovuto decidere di porre volontariamente fine ai suoi futuri secoli da folletto per convertirli in giorni da lepidottero? Puk non l'aveva forse visto tremare di paura mentre il ragazzo allargava con le mani la loro tana estiva fino quasi a distruggerla? E aveva forse già dimenticato che era stata sua l'idea di far calare su di lui un'ombra di sonnolenza non appena il ragazzo si era allontanato per cercare un bastone che potesse aiutarlo nel lavoro di smembramento della loro dimora? No, non poteva! E allora perchè, per quale motivo Puk poteva avere potuto pensare che...
Una scarica elettrica attraversò i suoi pensieri: se quel ragazzo stava distruggendo la loro tana, terrorizzandolo per sua stessa ammissione, allora perchè fino a pochi minuti prima stava prendendo le sue difese? Come aveva potuto dichiarare a se stesso che quel ragazzo gli piaceva, quando in realtà lo terrorizzava? Era estremamente confuso al riguardo, né ricordava il momento in cui era avvenuto questo cambio d'atteggiamento nei confronti dell'umano.
«É stato il ricordo di Sid.» Spiegò Puk come se gli leggesse nella mente «Quando hai visto il ragazzo addormentato sei rimasto silenzioso per qualche minuto, poi hai iniziato a blaterare qualcosa su come non avesse fatto apposta e non fosse veramente cattivo, su come fosse solo semplice e innocente curiosità o addirittura ardore nel voler affrontare e sgominare quella che per lui e i suoi simili potesse rappresentare una possibile minaccia, come un serpente o un feroce predatore. Nonostante la tua bontà, però, la faccenda mi sembrava strana: all'interno della tana avevi paura, e ora ti rifiutavi di voler punire l'umano con il "pungiglione", anche se mi ero assunto io il compito di farlo per evitarti lo sforzo e il fastidio.»
Prik riflettè ualche istante come a cercare delle incongruenze nella storia, eppure tutto gli parve più che plausibile: da un momento all'altro era passato dalla paura a una volontà di proteggere il ragazzo che non sapeva comprendere.
«Non preoccuparti, ora lascia che sia io a occuparmi di tutto.» Dichiarò Puk, balzando giù dal masso con grande agilità.
«Ma...fratello...»
«Tranquillo, non gli farò nulla di male. Non troppo male, almeno.»
Così dicendo Puk avanzò fino a raggiungere il braccio disteso del ragazzo addormentato, vi si arrampicò e ne raggiunse il petto, lo ispezionò come se fosse poco avvezzo alla fisionomia umana -in realtà non così dissimile dalla sua- e quindì levò il braccio destro al cielo, mormorando alcune parole nell'antica lingua, quella degli elfi che ormai da secoli avevano abbandonato il loro mondo. Immediatamente il suo bracciò iniziò a produrre una sostanza simile a del fumo, poi diede come l'impressione di vorticare impetuosamente, quindi mutò forma, divenendo, appena dopo il gomito, in tutto e per tutto simile al pungiglione di un insetto, nero e minaccioso.
«Ora pungerò il ragazzo umano, Prik» disse Puk con la fronte adida di sudore per lo sforzo magico compiuto «e insieme al dolore istillerò il doloroso ricordo della puntura di un calabrone avvenuta oggi, mentre cercava di distruggere la nostra tana. Questo dovrebbe bastare per spingerlo a non provare più ad avvicinarsi a un qualsiasi pertugio che potrebbe essere una tana e ospitare lo stesso insetto capace di procurargli una ferita per la quale soffrirà ancora persino dopo anni.»
«Tutto avverrà nella sua mente...»
«Esatto Prik, nella sua mente. Debole mente umana...» e così dicendo Puk si apprestò a colpire il corpo del ragazzo tra la carotide e la spalla, non mancando di concentrarsi sugli esatti ricordi e sulle sensazioni che intendeva trasmettere attraverso quel temporaneo pungiglione innestato sul suo braccio.
Prik nel frattempo non poteva fare a meno di ripensare alle ultime parole del fratello: se la mente umana era debole, e certamente lo era, allora quale nefasto torpore avvolgeva la sua? Possibile che fosse bastato un ricordo, e un'associazione, per fargli perdere la consapevolezza di mutare i suoi propositi? Sid...sarebbe potuta sembrare una sua magia, leggera e irrintracciabile, sottile e ben congegnata. Eppure non poteva esserlo, il suo amico non esisteva più, non nella sua forma, almeno, ma nemmeno nella sostanza: era certo che nello stesso istante in cui si era mutato in insetto fosse morto, o divenuto inconsapevole di chi fosse, convinto di essere farfalla e di non aver altro scopo al di là del posarsi di fiore in fiore.
«Aspetta!» Urlò improvvisamente a Puk un istante prima che vibrasse il colpo.
«Eh? Cosa c'è Prik?»
«Devo...farlo io.» Sussurrò, tanto lievemente che il fratello dovette urlare per farsi ripetere la sua risposta, che tuttavia rimase immutata: voleva essere lui a farlo.
Tra l'incredulità di Puk, Prik avanzò arrampicandosi sul braccio del ragazzo esattamente come aveva fatto suo fratello prima di lui, fermandosi al suo fianco, senza dire una parola. Alzò poi il braccio al cielo, pronunciando anch'egli quella manciata di parole nell'antica lingua, quindi apparve lo stesso fumo, lo stesso vorticare, il medesimo, terribile pungiglione.
Il volto di Prik era una maschera di sofferenza: un simile sforzo era per lui snervante, difficilissimo a sostenersi.
Chiuse gli occhi e cercò di visualizzare le esatte sensazioni da trasmettere, mentre Puk ripristinava il proprio braccio alla forma originaria, non cercando minimamente di contenere l'entusiasmo per l'importante decisione presa dal fratello: era tutto sorrisi e occhiate d'intesa.
Prik nel frattempo visualizzò nella propria mente non una, bensì 2, 3, 4 volte l'esatta sequenza delle immagini che avrebbe innestato nella mente del giovane umano: conosceva la tecnica, ma era la prima volta per lui, nè pensava che sarebbe giunta mai, eppure...
Anticipando l'azione che si accingeva a compiere con un ampio respiro, Prik mirò l'esatto punto in cui intendeva colpire, e si accinse a farlo. Nello stesso istante, perà, la sua attenzione fu catturata da qualcos'altro: da una farfalla verde e nera apparsa all'improvviso.
Sid.
Sid.
In quel momento era l'unico concetto a presidio della sua mente.
Non poteva essere che lui, lui doveva aver mantenuto la sua mente, pur costretto in quel corpo d'insetto, non poteva essere altrimenti, ma perché era lì? Perchè ora?
Osservò il volto dell'umano, i suoi capelli biondi, la sua giovane età, sospesa tra quella di un bambino e di un giovane uomo. Possibile che...
«É lo stesso umano.» sentenziò Puk alle sue spalle.
Lo stesso umano...
Prik non era bravo a distinguere gli umani, eppure alle parole del fratello per lui divenne evidente come il ragazzo che aveva davanti a sè fosse lo stesso amato dal suo amico Sid, lo stesso per cui era stato trasformato in farfalla.
I 2 folletti stavano ancora chiedendosi cosa mai volesse significare l'apparizione di Sid, se veramente si trattava di lui come oramai erano convinti che fosse, quando la farfalla iniziò a compiere delle rotazioni più rapide, e inconsuete. Pochi istanti bastarono ai 2 per comprendere che Sid stava utilizzando il suo nuovo corpo per compiere una delle innumerevoli magie che conosceva, e immediatamente una sottile scia polverosa si rese visibile nell'aria intorno a loro, portando tutti loro a starnutire rumorosamente. Anche il ragazzo. Il suo starnuto echeggiò fastidiosamente nelle sensibili orecchie dei folletti, che tremarono e caddero sul suo petto, provarono a rialzarsi ma vennero nuovamente costretti a cadere da un secondo starnuto, ancora più forte del primo.
Il giovane aprì gli occhi, annebbiati e incerti, stropicciandoseli per 2 volte, ignaro di avere 2 folletti sul petto, ma con la sensazione di avere qualche insetto sotto la maglia, per il formicolio causatogli dai loro piccoli piedi.
Puk capì che non c'era un istante da perdere: presto l'umano avrebbe posato il suo sguardo su di loro, trasformandoli in farfalle. Ma perchè Sid voleva che ciò accadesse? Desiderava forse sentirsi meno solo, costringendoli a dividere con lui il suo destino? No, non era possibile, lui l'aveva conosciuto, era una creatura buona, forse anche più buona del fratello. Allora...il suo sguardo cadde sul pungiglione che ancora adornava il braccio del fratello, e immediatamente capì: era per protezione. Sid non voleva che venisse fatto del male al ragazzo, voleva proteggerlo e non sapeva che intenzioni avessero con quel pungiglione: per quanto ne sapeva, potevano anche essere le peggiori, anche se non era questo il caso. Ma a poco gli avrebbe giovato capire esattamente la situazione, se lo sguardo del ragazzo si sarebbe posato sul suo corpo.
Afferrò Prik per un braccio, cercando di trascinarlo nell'impresa disperata di sparire sotto il cumulo di foglie, strisciando tra gli aghi di pino e i rami secchi fino a raggiungere la parte nascosta del masso sul quale erano in precedenza seduti, ma, inaspettatamente, il fratello si oppose come se avesse delle radici conficcate nel petto dell'umano, mostrando una forza che non aveva mai posseduto.
«Io resto, Puk.» Dichiarò con una serenità che lo turbò «Io resto. Ho sempre voluto...»
Prik non terminò mai quella frase: lo sguardo del ragazzo incrociò il suo corpo, il quale in quello stesso istante assunse l'aspetto di una farfalla variopinta, arancio con chiazze rosse e nere, e spiccò il volo mentre Puk tratteneva a stento una lacrima mentre scivolava rapido tra le foglie, rammaricandosi di essere stato veramente fiero del fratello solo e soltanto nel suo ultimo giorno da folletto, e per un'azione che non era nemmeno riuscito a compiere.
Ora Prik era una farfalla, e non percepiva da lui alcun pensiero, eppure, da dietro la roccia dietro cui era riuscito a nascondersi, gli parve felice, in compagnia del suo grande amico al quale aveva voluto tanto ricongiungersi da accettare la trasformazione in insetto, e di quell'umano per cui ora non riusciva nemmeno a provare rabbia, senza capire il perchè.
Li osservò ancora una volta, quei 2 folletti mutati in farfalle rincorrersi ora felici, in un vortice d'ali variopinte.
Ora sono solo pensò.
Sono solo.
giovedì 16 maggio 2013
Raccontino horror breve per un contest che già gira su facebook, lo pubblico anche qui sul blog...a presto per altre chicche!
Punizione
Toc toc
John Teere si affrettò ad aprire la porta della squallida camera d'albergo di Bucarest in cui si trovava, non riuscendo a trattenere un sorriso ebete sul volto.
«Oh ma buonasera!» Esordì di fronte alla figura che apparve alla sua vista: una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri e un fisico perfetto.
La ragazza non parlò, forse non conosceva la lingua dell'uomo, ma era evidente che sapeva il motivo per cui si trovava con lui in quella stanza, e lo dimostrò facendo scivolare le mani sul petto e sull'addome dell'uomo spingendolo fino a farlo ricadere sul letto.
Rob ha fatto davvero un'ottima scelta, pensò John riferendosi al suo portaborse, l'uomo incaricato di occuparsi di simili "dettagli" per le sue numerose trasferte di lavoro, questa ragazza sembra proprio una gattina ingrifata. Oh...
La ragazza aveva iniziato a leccarlo. Sul collo, sulle spalle, perfino sui capezzoli, mentre nel frattempo continuava a spogliarlo, come se non desiderasse altro.
John era colpito, ammirato. Mai aveva visto tanta devozione in una puttana: era come se volesse mangiarlo.
Per interminabili minuti John si sentì il Re del mondo. Provò sensazioni nemmeno lontanamente paragonabili a quelle poche volte in cui la moglie si prestava a simili attenzioni, o alle svariate volte in cui a farlo erano le puttane che Rob gli scovava in ogni angolo del mondo. Proprio mentre pensava che nulla potesse superare quel piacere, la ragazza si staccò da lui, spogliandosi completamente, rivelando le sue forme perfette. A John sembrava di non essere mai stato tanto eccitato. Provò ad alzarsi, pregustando con ineguagliabile lussuria quello che sarebbe stato il piatto forte della serata, ma con sua somma sorpresa non vi riuscì. Il pensiero andò subito alla bottiglia di vino che si era scolato a cena, eppure trovò strana quella sensazione di incapacità a muoversi. Ci provò ancora, senza ottenere un risultato più soddisfacente. Osservò la ragazza, quasi a chiedere un piccolo aiuto per rimettersi in piedi, ma a quel punto notò in lei un sorriso beffardo: si prendeva gioco di lui. Provò per una terza volta a rimettersi in piedi, appoggiando le mani sulle ginocchia, ma non riuscì a fare forza, tanto la sua pelle era stata resa scivolosa dalla saliva della donna.
Troppo scivolosa.
Osservò le sue gambe, il suo petto, il suo membro: tutto era ricoperto di una sostanza viscida che non poteva essere saliva.
«Ma cosa!? Cos'è questo?! Che cosa mi hai fatto?!»
La ragazza lo guardò inclinando il volto verso sinistra, aprendo la bocca in un largo sorriso. Un istante più tardi quel sorriso si tramutò in un ghigno, i suoi denti bianchi iniziarono a crescere fino a lacerarle la mandibola, i suoi occhi passarono da uno splendido verde a un bianco cadaverico, le unghie delle sue mani divennero simili ad artigli, e il suono della sua risata dilaniò il petto di John più di quanto, poco dopo, avrebbero fatto le sue zanne.
«Che cosa sei?! Cosa vuoi da me?!»
John Teere non ottenne risposta, né riuscì a muoversi, anzi, poco dopo si accorse di non riuscire più nemmeno a parlare.
Deve essere stata la sua saliva, pensò, la sua fottutissima saliva.
La ragazza, anzi il mostro, si inerpicò su di lui, come se volesse cavalcarlo sul suo membro rimasto turgido, assolvendo fino all'ultimo ai suoi doveri.
Gaah
Era il suono che ora la ragazza-mostro emetteva annusandogli la pelle, insinuando la sua lingua nelle orecchie dell'uomo, passando le mani sui suoi flaccidi fianchi come se stesse soppesando il suo pasto.
Sono un fottuto maiale per lei, riusì a pensare John, che aveva ormai perso il controllo del suo corpo, sta solo decidendo da dove cominciare.
Perchè vampiro, demone o chissà quale mostro quella donna fosse, perchè soltanto un mostro del genere poteva essere, era chiaro che se lo sarebbe mangiato, e John non era tanto stupido da non averlo compreso.
Gaah
La creatura sembrava non sapersi decidere, poi scivolo tra le sue gambe, emulando quel gesto che John aveva tanto gradito, soltanto una manciata di minuti prima: ora sapeva da dove iniziare.
Così sia, pensò John un'ultima volta prima di perdere i sensi, con l'immagine di sua moglie negli occhi, che io sia punito.
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