venerdì 6 settembre 2013

Ecco un secondo racconto riguardante lo stesso contest, miscelato con il tema zombie perchè si sa, i non morti stanno bene un po' ovunque, tranne che nel giardino di casa...buona lettura!




Sono un vile

Tenendosi costantemente a contatto con la parete del muro alla sua destra, Mario P., trentaduenne ex idraulico confinato da otto mesi nell'ospedale psichiatrico di Monza, giunse cautamente nella sala da pranzo, non mancando, né mai l'aveva fatto, di gettare un'occhiata ancora una volta in tutte le direzioni, alle finestre, alle porte e poi ancora alle finestre.
«Mariano Mariano...» esordì un ometto eccessivamente magro, ancora imberbe nonostante avesse ormai superato da anni la soglia della pubertà e con un paio di occhiali perennemente appannati «niente zombie anche oggi, mi spiace! Niente vampiri, niente demoni, nessun mostro pronto a entrare in questo covo di pazzi, quindi perchè non ti rilassi, non ti siedi e aspetti che venga servito a tutti lo stufato con il coniglio della vecchia Rita? Ah, una delle poche cose che mi mancheranno di questo posto...»
«Io m mi chiamo M Ma Mario!» protestò l'uomo, la cui balbuzienza era notevolmente peggiorata durante i lunghi mesi di soggiorno in quel luogo.
«Si, certo, certo...ma Mariano mi diverte di più! E ora siediti, che non ho tutto il giorno, e devo anche assicurarmi che Max Tentenna non rovesci ancora il suo vassoio...» disse riferendosi a un altro paziente allegramente rinominato con un nomignolo capace di divertirlo.
Mario obbedì subito, prendendo posto al tavolino posto esattamente al centro della stanza: Danny, lo stagista infermiere, era una persona malvagia, lo prendeva continuamente in giro, ma lui era l'unico, tra tutte le persone là dentro, che non si sarebbe trovato impreparato nel corso dell'imminente apocalisse zombie. Perchè quest'ultima era inevitabile, di questo Mario ne era assolutamente convinto. Aveva passato anni, a casa, accumulando scorte su scorte, erigendo muretti e tramezze, attivando trappole e allarmi. Questo fino a quando la sorella maggiore decise di farlo rinchiudere li dentro, di appropriarsi della casa che era stata dei loro genitori e di venderla a un ricco impresario ossessionato dai possibili furti che poteva subire. Per Mario fu un incubo. La prima cosa che fece non appena la stanza 4 del corridoio B divenne la sua nuova dimora fu studiarne la posizione: quali erano gli ingressi, quali le possibili via di fuga, quale fosse la capienza di cassetti e armadi... Poi provò a immagazzinare tutto ciò che gli era possibile, raccogliendo qualsiasi avanzo, ogni straccio, ogni giornale e ogni singola cianfrusaglia sulla quale riusciva a mettere le mani. A un certo punto, però, si imbattè in Danny. Non si trattava solo di un ragazzo cattivo come quei tanti che aveva incontrato nella sua vita, Danny si divertiva a enfatizzare le paure degli altri, li derideva e punzecchiava, facendo tutto questo a scopo terapeutico, diceva, per esorcizzare la paura. Mario lo odiava. Per fortuna, però, quello era l'ultimo giorno per Danny: il suo periodo di stage era finito.
Con questo pensiero in testa Mario gustò con gioia lo stufato, divorò le patate di contorno e, dopo l'ora e mezza trascorsa nella sala comune, si apprestò felicemente a ritornare nella sua stanza, ovviamente badando sempre che nessun rumore potesse fornirgli il minimo sospetto di essere seguito. Lui era sempre stato tranquillo, non aveva mai dato problemi, e i medici non avevano assegnato nessuno al controllo della sua persona: semplicemente, alle ore 22.00, sarebbe dovuto passare l'infermiere a chiedergli se andava tutto bene, e lui avrebbe risposto di si, e che stava per mettersi a dormire.
Quella sera, come sempre, proseguì nella rilettura dei suoi libri preferiti: Manuale per sopravvivere agli zombie, Guida all'Apocalisse Z, Manuale di sopravvivenza urbana, smettendo di leggere esattamente a un quarto alle dieci, in modo da rielaborare quanto aveva letto per poi dormire pochi minuti dopo il controllo, evitando così di stare troppo sveglio la notte, oscura e piena di terrori.
Inaspettatamente, alle 22.05 ancora nessuno era passato. Era piuttosto strano, ma la cosa non lo preoccupò. Attese altri dieci minuti e ancora niente. Ora era un po' agitato, nella sua mente iniziavano a farsi strada ipotesi fantasiose, ma per la sua psiche decisamente non improbabili. Altri 15 minuti, e Mario, oramai ridotto a un fascio di nervi, udì un rumore, un rumore forte, chiaro, come se qualcuno avesse tirato un calcio alla sua porta. In quel momento ogni sua paranoia divenne certezza, avrebbe voluto urlare al suo psicologo che era tutto vero, che quella sua convinzione era reale, anche se in verità non aveva verificato nulla. Era solo un rumore. Con la forza della curiosità più che del coraggio percorse i pochi passi che lo separavano dalla porta, si chinò all'altezza della feritoia per il passaggio del cibo di cui era dotata e vi appoggiò contro una mano, in attesa. Avrebbe dovuto gettare uno sguardo dall'altra parte, ma non poteva, non ne era capace, terrorizzato com'era all'idea che tutte le sue paure potessero concretizzarsi. Attese ancora qualche minuto, durante i quali gli parve di sentire ognuno dei rumori che tanto temeva: passi strascicati, vetri sfondati, grida di terrore. Solo dopo alcuni istanti di assoluto silenzio si decise a sollevare impercettibilmente la feritoia, ruotando il collo fino ad avere una sottile visione del mondo al di la della sua stanza, non sufficiente però a mostrargli nulla. Sollevò ancora di qualche centimetro la lastra metallica, avvicinò ulteriormente il suo occhio al passaggio creatosi e iniziò a ripetere la sua abituale procedura: un primo sguardo alla sua sinistra, nulla, un'occhiata alla sua destra e...
Ghaah!
Mario cadde pesantemente sul pavimento, gli occhi sbarrati dal terrore, la fronte imperlata di sudore. Uno zombie! Al di là della porta c'era uno zombie, non era una sua illusione! L'aveva anche riconosciuto, si trattava di Danny, l'infermiere. Aveva il volto coperto di sangue, e non appena se l'era trovato di fronte aveva fatto scattare la mascella, emettendo quel terribile grido; anche ora sembrava non darsi pace, picchiando le mani contro la porta, continuando con le sue urla disumane. Mario sapeva che tutto questo sarebbe successo, ma ora era paralizzato dalla paura, incapace di alzarsi, di pianificare una fuga, di reagire. Aveva passato anni a organizzare ogni dettaglio nella sicurezza della sua abitazione, ma ora si trovava in quel maledetto posto e non aveva avuto nè abbastanza tempo nè abbastanza risorse per varare delle soluzioni valide. Ben presto si accorse che le sue emozioni gli avevano già fatto perdere il controllo delle sue funzioni corporali, aumentando a dismisura quel senso di opprimente angoscia che stava velocemente impadronendosi di lui. Tremava, ansimava, sudava. Il suo cuore aveva cominciato a battere all'impazzata, i rumori provenienti dal corridoio sembravano sempre più inquietanti, i cardini della porta più deboli e malmessi. Si accorse che in fondo, anche se in quel momento fosse stato a casa sua, circondato dalle sue provviste, le sue trappole e le sue armi, non sarebbe mai stato pronto, e questo perchè era un vigliacco, un debole, un vinto. Provò a girarsi per raggiungere il letto, desiderando nascondersi sotto le coperte come quando era bambino, ma ancora una volta si accorse di non poterlo fare. Il cuore batteva così forte che si convinse di come la sua gabbia toracica non sarebbe stato in grado di contenerlo. D'un tratto sentì un dolore lancinante nel petto, come un fortissimo crampo al cuore: ansimò, volse ancora uno sguardo in direzione della porta, quindi ricadde sul pavimento, esanime, morendo con la consapevolezza di essere un vile.
Pochi minuti dopo Danny aprì la porta della stanza, rassentandosi il viso dall'abbondante ketchup e dal leggero trucco che aveva usato per preparare quello scherzo, con la collaborazione di colleghi e inservienti, per festeggiare con un po' di sadica goliardia il suo ultimo giorno di stage.
Non avrebbe lavorato come infermiere mai più.









mercoledì 4 settembre 2013

Il ritorno

Dopo molto tempo rieccomi con un nuovo racconto per un contest; il tema? la normalità della vita in manicomio... Eccovelo!


Io non vedo, io non sento


All'attenzione della gentilissima Miss. Wettington, Direttrice dell'Istituto Psichiatrico St. Paul

Direttice carissima,
La prego anzitutto di accettare il modesto omaggio floreale che mi sono permesso di farLe pervenire, per l'infinita gentilezza con la quale mi ha accolto, sia pur temporaneamente, nel Suo istituto. Parlo di un'esperienza temporanea in quanto, come Lei certamente saprà, la mia presenza nella sua struttura non ha ragione di protrarsi per molto tempo ancora: il lieve stato confusionale nel quale mi ero ritrovato a essere è oramai completamente superato, grazie all'efficace confronto con i capacissimi medici sui quali può contare una struttura del livello della St. Paul. Le chiedo, pertanto, una riesamina del mio caso, affinchè gli eccellenti servizi dell'Istituto di cui Lei è a capo possano essere offerti alle persone che più ne necessitino.

Cordialmente,
H.P. Rutheford

Thomas Reed, trentaseienne avvocato del Maine con la sventura di essere stato assegnato d'ufficio al caso del Signor Rutheford, rilesse attentamente quanto egli stesso aveva scritto, nel disperato tentativo di gettare una parvenza di rispettosità, diligenza e ossequiosità laddove il suo assistito altro non mostrava che arroganza, sicurezza e follia. Nemmeno lui sapeva perchè mai avesse preso tanto a cuore quell'uomo, ma al momento aveva deciso di rischiare, facendo passare quella richiesta scritta di suo pugno come una lettera proveniente direttamente dal suo assistito. Non che quest'ultimo non ci avesse provato, anzi, tra le mani di Reed si trovavano ora quasi una dozzina di lettere traboccanti richieste di liberazione, invocazioni a un ritorno a casa, assicurazioni circa la propria sanità mentale. Il problema consisteva nel fatto che H.P. Rutheford, pur non essendo in alcun modo pericoloso per la società -di questo Reed ne era convinto- al momento non poteva assolutamente essere definito come una persona nel pieno controllo delle proprie facoltà mentali. Era stata quell'ultima lettera, quella che aveva stracciato subito dopo averla letta, a convincerlo che quell'uomo doveva ritornarsene nella sua casa, lontano da tutto e tutti, uscendo così definitivamente dalla sua vita. Leggere quelle righe deliranti l'aveva turbato, tanto che le parole di quell'uomo si erano incise nella sua mente nonostante avesse immediatamente ridotto a brandelli i fogli sui quali erano state scritte, al punto da poterle recitare a memoria alla perfezione:

All'attenzione della Signora Wettington, Direttrice dell'Istituto Psichiatrico St. Paul

Signora Wettington, Le scrivo per informarLa dei progressivi e costanti miglioramenti del mio stato di salute, non potendo essere certo che questi dati non Le giungano alterati da alcuna fonte. Le rammento inoltre di come, a dispetto di quanto dichiarato dal personale, io non ho mai richiesto alcun materiale che possa essere considerato "strano": solamente un rosario, per le ore di preghiera, alcune piccole campane dalla mia collezione privata, per l'armonia che il loro suono mi induce, e un sacchetto di sale grosso, il cui effetto, una volta applicato con l'ausilio di impacchi sulla mia zona lombare, è di comprovata efficacia. Un uso diverso da parte mia di questi oggetti scade semplicemente nella congettura. Mi trovo inoltre costretto a segnalare la facilità di suggestione per la quale si contraddistinguono gli inservienti addetti alla pulizia dell'ala dell'edificio in cui attualmente risiedo, rammaricandomi delle false notizie che costoro possano avere diffuso. Le confermo, dunque, che non vedo alcuna ombra, la notte, nella mia stanza, né tantomeno vi comunico in alcun modo. Le urla che taluni dichiarano di aver sentito nel cuore della notte non sono altro che l'amplificazione e l'esagerazione dell'effetto di alcuni incubi avuti recentemente a causa della tensione accumulata per l'eccessivo stress dovuto a questa situazione. Non vedo ombre nascondersi negli angoli bui della mia stanza, non le vedo strisciare fuori con esasperante lentezza, nè osservo con orrore le loro lunghe dita tendersi fino ad afferrarmi. Non sento il loro respiro dietro al mio orecchio, non percepisco il nero livore per il cuore che mi batte nel petto né la cieca rabbia dovuta alla loro incapacità di ottenere ciò che più desiderano: tutto questo non è che parte dei miei incubi, e il mio rammarico consiste nell'essermi confidato con persone tanto infantili da avere diffuso simili sciocchezze come parte di un'esperienza reale da me vissuta. Le ripeto, io non vedo mostri, nè ombre o demoni, non ne sono ossessionato al punto di richiederLe certi oggetti nella convinzione che essi possano proteggermi contro queste creature di fatto inesistenti, tranne che nei miei incubi.

Fiducioso nelle Sue capacità di valutazione,
e ringraziandoLa per il suo tempo,
H.P. Rutheford

Per Rutheford, Reed lo sapeva, le ombre erano più che mai reali e le sue grida, nella notte, avevano qualcosa di terrificante. Quello che più aveva spaventato l'avvocato era uno stralcio di foglio che lo stesso Rutheford si era premurato di barrare affinchè non venisse inserito nella lettera alla direttrice dell'ospedale psichiatrico, forse in un raro lampo di lucidità. Raccontava nei minimi dettagli un sogno che dichiarava di avere fatto, chiedendo alla Wettington di aiutarlo nella sua interpretazione, confidando nelle sue capacità. Reed lo teneva ancora tra le mani, rabbrividendo nell'immaginare come Rutheford avesse vissuto quell'esperienza, provando, per un secondo appena, a viverla sulla sua pelle.

Questa sera, dopo la porzione di ottimo stufato servito dalla Señora Maria, ho avvertito un lieve giramento di capo, provvedendo a coricarmi anzitempo, fatto a cui riconduco il sonno animato da incubi che ne è conseguito. Dal momento in cui incubi di tale risma sono frequentissimi, Le vorrei chiedere una sua interpretazione al riguardo, un confronto per cercare in queste proiezioni illusorie i veri problemi per cui, nel recente passato, una cattiva gestione dello stress mi ha portato ad essere temporaneamente ospite del suo Istituto. Dopo pochi minuti, così almeno mi è parso, iniziai a sentire gli occhi molto, molto pesanti, eppure mi rifiutavo di cedere al sonno. Notai allora delle difformità nelle ombre proiettate dalle luci delle pareti, ombre che sembravano allungarsi e poi restringersi come se ogni oggetto (la lampada, l'orologio, la tenda..) venisse scosso da un forte vento, creando una moltitudine di onde nere, molto più scure di quanto le ombre mi apparivano solo pochi istanti prima. Tutte queste difformità createsi iniziarono poi a sciamare in un unico punto, riversandosi sulla parete opposta, formando prima un cerchio, poi qualcosa di simile a una forma, senza che la si potesse definire tale, ad ogni modo. Questa figura -la definisco figura per aiutarla a comprendere meglio il mio caso- iniziò gradualmente a espandersi, fino a invadere le pareti laterali e il soffitto, e a un certo punto iniziò a respirare. Dico respirare, ma non si trattava di un respiro vero e proprio, era qualcosa di strozzato e sgraziato, di fetido pur essendo inodore. L'ombra iniziò a discendere su di me, aumentando l'intensità di quell'aberrazione che in precedenza ho chiamato respiro, e vidi distintamente 2 mani, scarne e putride, allungarsi in direzione del mio petto, divenendo solide rispetto alle ombre che prima erano e allora si, allora ho urlato, al culmine dell'incubo, risvegliandomi in un letto di sudore, sentendo sulla mia pelle il contatto con quelle mani fredde, sul mio collo la condensa del suo respiro.

Rutheford non concludeva questo racconto con la richiesta di un aiuto, lo troncava e basta, barrandolo in seguito affinchè Reed capisse di non doverlo fare arrivare alla direttice, anche se era solo la storia di un incubo. Questo perchè l'uomo dichiarava che era solo un brutto sogno che si ripeteva, perchè dichiarava di non vedere, di non sentire, ma Reed sapeva.
Rutheford vedeva.
Rutheford sentiva.