Fiamme nere
Quella serata era stata estremamente pesante, come tutte quelle che l'avevano preceduta da almeno un anno a questa parte. Simone si sistemò il casco, ruotò le chiavi e si preparò a tornare a casa, all'alba delle 2.00 del mattino, apprestandosi a mettere fine a quell'ennesimo insulso Sabato sera. Abbandonò il pub, il "suo" pub, con la consapevolezza di un implicito addio: non c'era più posto per lui, la sua presenza altro non era che un problema oramai, per tutti quanti.
Non si era salvato, quel giorno, non veramente. I suoi zii, gli stessi che lo avevano viziato nella sua infanzia, avevano troncato ogni rapporto con lui, i suoi genitori lo temevano, i suoi coetanei l'avevano demonizzato, e ora era per tutti un diavolo, un assassino, una mente turbata e instabile. Eppure lui aveva resistito, aveva combattuto e vinto, facendo cose che in circostanze normali non sarebbe in alcun modo stato capace di fare; aveva conservato le energie, l'uso della mano, la lucidità, ma tutto questo non era valso a nulla: lui non era l'eroe che si era prefigurato di essere agli occhi della gente, ma bensì il mostro, dal quale nascondere i propri cari.
Tutto era avvenuto a favore dei mass media, e nella sua città era divenuto, in quel periodo, più famoso di uno di quei tanti cosiddetti vip presenti sulle pagine di ogni giornale. Aveva avuto la sfortuna di riempire le pagine di cronaca in un momento in cui erano vuote e desolate, e il suo caso ne era risultato amplificato, accompagnato da polemiche e discussioni, con tanto di telefonate, interviste, apparizioni televisive e critiche, mentre lui lentamente guariva e tentava, invano, di riprendersi la propria vita. Nel frattempo ogni notizia sul web o su carta stampata dava la propria versione dei fatti, fregandosene della realtà, della storia come l'aveva raccontata lui, l'unico a poterlo fare in modo corretto. Erano venuti fuori sospetti di schizofrenia, illazioni sul rapporto con i suoi zii, accuse contro un sistema violento, contro film e telefilm, videogiochi e cartoni animati: un putiferio.
La versione unanimamente accettata di quanto era accaduto era questa: dopo aver ricevuto dai suoi zii l'incarico di occuparsi del loro cane durante le vacanze estive, Simone si era recato a casa loro, incontrando difficoltà nella gestione di Attila, un alano adulto di cui la stampa aveva già provveduto a divulgare la lacrimevole storia, nonchè le infinite testimonianze di chi parlava di lui come di un inoffensivo gigante buono. A questo punto Simone doveva aver ceduto a uno scatto d'ira, reagendo in maniera spropositata e malata alle difficoltà: aveva dapprima rotto una brocca di ceramica sulla testa del cane, il quale poi aveva reagito con ferocia, indubbiamente, ma solo in risposta alla prepotenza del ragazzo; poi, invece di cercare di uscire dalla casa o chiamare qualcuno in soccorso, aveva preferito agire in modo diverso e, secondo molti, inconcepibile. Secondo le ricostruzioni degli eventi di quel pomeriggio, infatti, Simone avrebbe preferito subire delle orribili ferite fronteggiando l'alano, indugiando nella casa mentre la porta di uscita era a meno di un metro da lui, arrivando così, dopo alcune azioni difficilmente spiegabili, alla cucina, dove per mezzo di un coltello aveva brutalmente ucciso Attila.
Naturalmente non era andata così, ma proprio la sua ostinazione nel raccontare un'altra versione dei fatti, quella vera, l'aveva resa poco credibile. Simone non capiva come fosse possibile non credergli, negare la possibilità che tutto fosse nato come legittima difesa, e come potesse essere possibile immaginare che lui fosse un pazzo, che avesse voluto uccidere il cane dei suoi zii scegliendo proprio quella malsana opzione tra le mille possibili. Ma non c'erano altre opzioni, Attila voleva ucciderlo, e lui si era difeso per evitare che ciò accadesse, facendo tutto il possibile per rimanere in vita, persino il carnefice.
Aveva rischiato di perdere l'uso della mano, era rimasto sfregiato da profonde cicatrici, ma nessuno sembrava essersene accorto, a tutti sembrava solo la giusta reazione del cane alle sue angherie, e poco importava se Simone era quasi morto dissanguato: se l'era cercata. Aveva subito ore e ore di interventi in sala operatoria, era stato ricucito come se fosse stato una bambola di pezza, e nemmeno adesso, dopo oltre un anno, era in grado di stringere il pugno destro oltre una certa misura, eppure quasi non era stato compatito.
Il peggio fu tornare a scuola, nel suo istituto alberghiero, dopo un mese passato tra ospedali e apparizioni in televisione, presentandosi, agli occhi di tutti, come il ragazzo violento con problemi di instabilità mentale che aveva ucciso il cane dei suoi zii. I compagni di classe con cui aveva meno legato lo evitavano come un appestato, i ragazzi più piccoli lo seguivano, lo osservavano, come se avessero la rara opportunità di studiare la vita di un serial killer: era tutto dannatamente assurdo.
Presto iniziarono i problemi, i veri problemi: non andava a genio a molti, e questo lo sapeva, ma presto le voci, i mormorii e gli sguardi cominciarono a irritarlo anche oltre a quanto si sarebbe aspettato, e lui divenne nervoso, irascibile, violento. Il caso più esemplare al riguardo fu la rissa con alcuni ragazzi di terza, incurante delle sue ferite ancora non completamente risanate, e nella quale aveva rotto il naso e un sopracciglio a un ragazzo di nome Niccolò, Niccolò Stovini. Ne era seguita una denuncia e una sospensione, incomprensioni con i genitori, e nuova attenzione su di lui da parte dei mass media: un inferno.
Simone era saturo di questa situazione: lo dipingevano come un cane rabbioso e come un diavolo assetato di sangue? Allora avrebbero avuto quello che chiedevano, tutti quanti. Decise di tatuarsi delle fiamme nere, fino a ricoprire interamente le cicatrici sulle braccia e sulle gambe, le stesse fiamme che avrebbero dovuto avvolgerlo, a detta di tutti, se fosse stato solo la metà del demone malvagio che essi dipingevano. Anche se avrebbe dovuto provare un grande dolore tatuandosi quella pelle ancora ferita dalle zanne di Attila, Simone ricordò quei momenti come pura estasi, un processo di trasformazione in ciò che il mondo esterno aveva desiderato che fosse: un disadattato e un violento. Tutto questo lui lo accettava, rassegnato all'impossibilità di rovesciare la sentenza del popolo.
Dopo aver voluto sul corpo quei tatuaggi tutto il suo mondo cambiò: lasciò la scuola e la famiglia, trovò un lavoro come aiuto-cuoco e un monolocale in una zona malfamata della città, distante dalla sua vecchia abitazione, a 180 euro al mese. Le fiamme nere ora ricoprivano i segni dei morsi ricevuti, facendolo passare per un bullo tatuato a chi ignorava la sua storia: un ottimo modo per ricominciare, ma anche per ricordare sempre a se stesso la rabbia che lo aveva spinto a volerli. Non gli importava più nulla di nulla, e le uniche persone che gli erano rimaste vicine si contavano oramai sulle dita di una mano menomata, come gli piaceva sottolineare nelle poche serate libere trascorse al pub, lo stesso locale dal quale ora si stava allontanando con l'intenzione di non farci più ritorno.
Non era per lui che lo faceva, ma per quei suoi pochi amici che lo avevano sempre sostenuto, credendo alla sua verità e non alle menzogne dei media, giustificando la sua aggressività come normale reazione allo stress a cui veniva sottoposto. Loro erano oramai tutto per lui e, per evitare di metterli in pericolo, Simone era disposto a qualsiasi cosa. E in quel locale il pericolo era arrivato, e aveva un nome e un cognome: Fabio "Il Pazzo" Stovini.
Non aveva mai avuto modo di conoscerlo direttamente, né la prospettiva lo aveva mai allettato: di 4 anni più grande di lui, si trattava di uno dei peggiori elementi mai transitati per il suo istituto alberghiero, lo stesso in cui studiava il fratello minore Niccolò, con il quale invece aveva avuto a che fare, eccome. Quest'ultimo era un ragazzino dai capelli ingellati e le scarpe costose sempre pronto a spararle grosse alle spalle di tutti, a vantarsi di essere a conoscenza di cose che non poteva sapere semplicemente perchè non erano mai avvenute. Era stato lui, il secondo anno, a mettere in giro la voce che la sua professoressa di italiano era solita intrattenersi con alcuni ragazzi di quinta in attività di parecchio extrascolastiche, e sempre lui aveva giurato di aver visto il preside molestare una matricola con dei problemi mentali, quella volta che si era attardato a uscire dalle cucine. Per Simone Niccolò Stovini rappresentava solo della feccia,con il quale non intrattenere nessun rapporto: non era certo sua responsabilità dargli una lezione o qualcosa del genere, e il suo istituto non era uno di quelli americani dove i ragazzi più grandi dettano legge sui più piccoli. Non c'era un vero e proprio nonnismo. Qualche prepotenza, forse, qualche privilegio come i posti in fondo sul pullman, ma poco altro. Questo fino a quando uno di terza non decideva di cercar rogna con uno di quinta, ed era esattamente quello che Niccolò Stovini aveva fatto.
Niccolò, forse deluso dal fatto che dall'inizio del nuovo anno i riflettori erano puntati tutti su Simone, sul demone ammazzacani, aveva ben pensato di inventare un'altra storia, da aggiungersi alle tante che già circolavano. Sosteneva, infatti, di aver scoperto grazie alle confidenze di una ragazza di seconda con cui era stato e che aveva assistito alla scena, di essere venuto a conoscenza del fatto che Simone avesse più volte obbligato una ragazzina del primo anno, una tale Anna, a prestazioni sessuali nei bagni della scuola, minacciando, se si fosse rifiutata o lo avesse detto a qualcuno, di fare del male al fratello, un altro ragazzo di seconda con dei gravi problemi a rapportarsi con gli altri.
Ora, mettere in piedi simile accuse non avrebbe certo giovato a Niccolò, ma evidentemente quest'ultimo le considerava come un modo per partecipare, con notizie interessanti e inedite, al fatto più chiacchierato del momento, senza preoccuparsi minimamente di danneggiare con le sue menzogne una persona che nemmeno conosceva. E non era tutto: una notizia di questo tipo, riferita a prepotenze sessuali tra un ragazzo di quinta e una ragazzina del primo anno, fornivano il pretesto per accuse di pedofilia da parte di molti dei ragazzi di quinta, ovvero tra coloro che, esaurito il primo prurito sessuale, consideravano le ragazzine del primo anno quasi come delle sorelline più piccole, e queste ultime si rivolgevano proprio a loro se avevano dei problemi con dei ragazzi di poco più grandi. Si trattava dello zoccolo duro dell'istituto, ovvero di quelli forse maggiormente associabili all'idea di nonnismo: ragazzi con qualche anno in più del dovuto che credevano fosse loro dovere far rispettare le regole non scritte lasciate loro da chi li aveva preceduti, e tra questi c'era stato anche Fabio "Il pazzo" Stovini.
Quest'ultimo, con 8 anni di istituto alberghiero all'attivo, poteva essere considerato uno dei "grandi" della sua storia, e conosceva ancora molte persone grazie alle quali poteva restare a conoscenza dei vari avvenimenti salienti all'interno della scuola, ma Simone questo dettaglio non se lo ricordò affatto, mentre cambiava i connotati al fratello minore a suon di pugni. Non era sua intenzione farlo, ma non potè evitarlo, in nessun modo.
Venuto a conoscenza della fonte di quelle voci fastidiose, voci che lo urtavano e infastidivano molto di più di quelle che lo dipingevano come uno squilibrato e un violento, decise di aspettare, da solo, che Niccolò Stovini uscisse dalla sua classe, situata in un'ala laterale dell'istituto. Appena lo vide notò il terrore nei suoi occhi: doveva fargli paura, e la constatazione di questo lo mise di buon umore. Gli intimò, attraverso un semplice imperativo, di seguirlo fuori: voleva parlargli a quattrocchi, convincerlo ad ammettere di essersi inventato quella storia, mettergli un po' di paura addosso e lasciarlo andare, nulla di più. Niccolò però iniziò a sbraitare, a comportarsi come se Simone avesse in mano lo stesso coltello con cui aveva ucciso Attila, grondante sangue, e avesse intenzione di usarlo per sezionarlo in tanti piccoli pezzetti. Alla presenza di tutta la sua classe gli urlò contro di tutto: demone, pazzo assassino, pedofilo, figlio di puttana. Simone poteva lasciarsi scivolare addosso ogni insulto, certamente, ma semplicemente non ci riuscì: gli balzò addosso e lo colpì con un primo pugno, il più violento, che gli ruppe il naso, poi, appena fu a terra, con altri 3, 4 pugni, incapace di fermarsi fino a quando notò la sua mano sporca di sangue.
Era la prima volta che picchiava qualcuno, e le nocche della mano gli facevano male. La vista del sangue lo riportò a quel pomeriggio, e le cicatrici sul suo corpo pulsarono di dolore, tutte, in una solo tempo: si allontanò barcollando sulle gambe, abbandonando il suo istituto per sempre.
Dopo pochi giorni da quell'evento decise di farsi tatuare le fiamme nere che ora ricoprivano le sue ferite, e per un po' di tempo scomparì dai radar di tutti, schivando i giornalisti e i curiosi sulle sue tracce quanto meglio poteva: il suo caso era tornato alla ribalta, ed erano in molti a chiedere che un soggetto simile venisse rinchiuso da qualche parte, ma lui era ancora minorenne e, per un motivo o per l'altro, non se ne fece nulla.
Passò diverso tempo prima che si riavvicinasse ai suoi amici, scoprendo che per questi ultimi lui era sempre Simone, non un mostro, non un pazzo violento, solo una vittima delle circostanze e dello stress, uno che aveva sbagliato a perdere le staffe, certo, ma che poteva contare su ogni sorta di scusante.
In quel periodo si sentì finalmente bene. Oramai era divenuto maggiorenne, poteva contare su uno stipendio, vedeva solo chi gli andava a genio, la sua cattiva fama e i suoi tatuaggi funzionavano come repellente sul lavoro per chi avrebbe potuto, eventualmente, creargli noie. E passare ogni serata libera con i suoi amici al pub, offrirgli da bere e ascoltare le loro storie in quel momento era per lui quanto di meglio si potesse chiedere.
Quella sera era proprio una di quelle oasi di pace e tranquillità, o almeno lo era fino all'arrivo di Fabio "Il Pazzo" Stovini. Lui non lo conosceva, ma i suoi amici lo riconobbero subito; irruppe nel pub intorno a mezzanotte, con i capelli arruffati, la barba incolta nera e gli occhi da pazzo che avevano contribuito a creargli quel soprannome, precipitandosi direttamente verso il tavolo in cui si trovava Simone. Indossava una maglietta nera con il logo di un gruppo metal, una cintura con una fibbia a forma di teschio, jeans neri stracciati e un paio di anfibi militari: il tutto, abbinato alla sua altezza e alla sua mole, lo rendeva estremamente minaccioso. Era accompagnato da un ragazzo di origine marocchina, o tunisina, con un'espressione totalmente assente, troppo assente: doveva essere sotto l'effetto di qualche droga pesante, probabilmente era fatto di crack, e la cosa non lo stupiva, perchè "Il Pazzo" sembrava essere sotto l'effetto di qualcosa anche peggiore.
«Guarda Ahmed, aveva ragione il Nico: la superstar è qui!» esordì urlando a meno di un metro dal tavolino «É qui tranquillo a bersi una birra coi suoi amichetti aspettando che arrivi qualche ragazzina di 12 anni per farsi fare un servizietto eh? Ma bravo, bravo, abbiamo gli stessi gusti noi 2, sai? Ahahah!»
Simone rimase attonito, per un istante, poi esplose di rabbia: quella persona lo disgustava «Sei il fratello di quello a cui ho spaccato il naso, vero? Beh vattene, e riferisci pure a quell'idiota che per me è stato un piacere.»
Si era imposto di parlare così, con arroganza, a chiunque lo infasidisse: lui non voleva che nessun altro facesse parte della sua vita, nè nel bene, nè nel male, e questa soluzione sembrava perfetta per allontanare chiunque, ma era anche l'ideale per chi cercava solo una buona scusa per attaccar briga.
«Parole grosse per chi nella sua vita non ha ammazzato altro che un cane, grosse, troppo grosse!» fece Il Pazzo «E io che pensavo di venire qui a fare amicizia! Non è vero Ahmed? Ho detto proprio così: perchè stasera non andare a cercare il tizio che ha spaccato il naso a mio fratello e bere qualcosa con lui? E magari dopo andare a puttane insieme, oppure a sgozzare un cane...»
Simone balzò in piedi, schiumando rabbia «Vattene. Ora. O giuro che ti ammazzo.»
«Lo dicevo io che saremmo divenuti amici...» disse Il Pazzo dopo una sonora risata, e mentre parlava si tolse la maglietta, rivelando un fisico da lottatore, solcato da una duplice cicatrice su un fianco e decorato da tatuaggi di prosperose ragazze asiatiche in stile geisha.
Simone non esitò e si scagliò su di lui serrando il pugno, colpendolo nell'addome: subito nel pub si diffuse un'incontenibile agitazione, con ragazzi che si affrettavano a guadagnare l'uscita, altri che si schiacciavano contro le pareti e pochi coraggiosi che provarono a intervenire, separandoli. Tra questi apparve il proprietario del locale, un uomo di cinquantanni alto 1 metro e ottantacinque per 130 chili, e non mancò la sua missione di riportare l'ordine: Simone e Il Pazzo si ritrovarono ben presto nello spiazzo del retrobottega, deserto a parte loro, Ahmed e i 2 amici di Simone presenti al pub quella sera.
Alessia, l'unica ragazza del gruppo, fortunatamente era rimasta a casa in quell'occasione, e questo bastava a trasmettere a Simone un senso di gioia, era felice che lei non lo potesse vedere in quella situazione, all'interno di una rissa che non aveva cercato, ma che l'aveva trovato, inevitabilmente. Non si trattava della sua ragazza, ma per lei provava un affetto speciale: era stata la persona che gli era stata più vicino in tutto quel periodo, e la stessa che aveva maggiormente criticato quei suoi tatuaggi e quell'arroganza e aggressività mostrata verso tutti, come delle spine velenose innestate sulla pelle. Alessia era forse l'unica ad aver cercato, in tutti i modi, a riportare indietro il Simone precedente all'incidente, quello che se ne era andato massacrato dai media e dal fato, e se lo avesse visto in quel momento, con le pupille dilatate per la rabbia e le unghie conficcate nei palmi delle mani, avrebbe considerato fallito ogni suo tentativo presente e futuro.
Voglio farla finita alla svelta, pensò, provando come la sensazione che i suoi pensieri avessero smesso di appartenergli riempire di pugni questo bastardo e andarmene a casa, solo questo.
Dal canto suo Il Pazzo sembrava estremamente divertito dalla situazione: saltellava sul posto imitando, nella sua mente bacata, qualche film di Bruce Lee «Che dici Ahmed, metterà a segno qualche buon colpo il diavolo ammazzacani? Si? Dici che si crede forte per aver rotto il naso a quella mezza sega di mio fratello? Ah...»
In un istante, mostrando un'agilità e una velocità che nessuno tra i presenti si sarebbe aspettato, Il Pazzo percorse quei 2 metri che li separavano e colpì Simone alla bocca dello stomaco con un pugno infinitamente potentissimo. Sorpreso Simone barcollò all'indietro, ricevendo un altro fortissimo pugno dal basso verso l'alto, sotto il mento, che lo fece crollare a terra: in pochi secondi aveva perso su tutta la linea.
Il Pazzo, però, sorprese tutti, evitando di infierire o vantarsi: girò i tacchi, recuperò la maglietta dalle mani di Ahmed e si apprestò ad andarsene, quindi si voltò e disse, rivolgendosi a Simone «Sei solo una mezza sega. Credevo sarebbe stato divertente, ma mi sbagliavo.»
Non appena se ne fu andato gli amici di Simone si precipitarono a prestargli soccorso, a chiedergli come stava, e lui si affrettò a rassicurarli sul fatto che stava bene, ma in realtà sapeva che non avrebbe potuto fare nulla se Il Pazzo avesse deciso di prendersela anche con loro, e la possibilità che ci fosse stata anche Alessia a quella serata lo terrorizzava: non poteva permettersi di mettere in pericolo nè lei nè gli altri, mai più. Fu per questi motivi che decise che non sarebbe più tornato in quel pub. Certo sarebbe uscito ancora con i suoi amici, ma per un po' di tempo sarebbe stato meglio sparire, anche da loro.
Dopo poche centinaia di metri a bordo del suo scooter Simone iniziò a sentire il dolore dei colpi subiti, fino a quel momento tenuto a freno dall'adrenalina: il giorno dopo si sarebbe trovato un bel livido sullo stomaco, e sentiva nella bocca il sapore del sangue. Svoltò per la stradina alternativa che gli avrebbe permesso di tagliare tutto il centro e sbucare direttamente nella zona della sua abitazione, quando, ben presto, si accorse di avere una macchina dietro di sè. Si trattava di una presenza inusuale per quel tragitto, e alquanto problematica, dato che, se intendeva superarlo, non c'era letteralmente lo spazio fisico per farlo, o meglio c'era, ma lui sarebbe di certo finito nel marcilento corso d'acqua che scorreva al lato della strada.
Il guidatore dell'autovettura sembrò però non accorgersi di questa difficoltà, e accellererò improvvisamente, portandosi a ridosso della sua targa, acceccandolo con un colpo di abbaglianti. Simone lo maledisse, e tentò di accostarsi il più possibile per permettergli di superarlo, ma con sua grande sorpresa l'auto sterzò e gli venne addosso, facendolo cadere inesorabilmente nel canale. Tutto avvenne troppo rapidamente: lo scontro tra la sua ruota e il paraurti dell'auto, la caduta, lo schianto nei pochi centimetri d'acqua del canale mentre evitava per pura fortuna che lo scooter gli cadesse addosso, il dolore esteso a tutto il corpo.
Lo avevano investito, deliberatamente, e per poco non era morto: era sicuro di avere qualche costola rotta, e ogni parte del suo corpo poteva contare su una lacerazione o un livido. Si appoggiò sulla schiena, mettendosi a sedere sul fondale ricoperto di una melma verde e densa, cercando con lo sguardo di capire chi fosse il responsabile di quell'attentato alla sua vita: una parte di sè non rimase affatto sorpresa di quel che vide, ma semplicemente lo accettò, come naturale epilogo dei fatti. Il Pazzo uscì dalla sua auto con tutta calma, fumando una sigaretta, mentre dal lato passeggero Ahmed faceva capolino obbedendo a un suo ordine, brandendo una pistola con aria distratta.
«Uh uh, ancora vivo ammazzacani? Grandioso, grandioso!» esclamò Il Pazzo, e senza esitare saltò giù per le pareti del canale, mostrando un'agilità e un senso dell'equilibrio davvero impressionanti.
«Cos'è quell'espressione? Non mi dire che non ti aspettavi di rivedermi...siamo amici da questa sera, e io dedico completamente la serata ai miei amici, senza lasciarli soli un momento, o potrebbero finire chissà dove, chissà in quali guai...meglio che ci sia sempre lo zio Fabio a guardargli sempre le spalle no? Non sei felice di vedermi allora? No?»
Il suo soprannome mai sembrò più appropriato: era un pazzo. Simone lottava contro il dolore dovuto alla caduta, non riusciva a trovare nè la forza di rialzarsi nè quella di riversare addosso a quello strano personaggio tutta la sua rabbia: era tutto assurdo. Si rimise in piedi, infine, cercando di ignorare la terribile fitta di dolore proveniente dal fianco, e lanciò una lunga, torva occhiata al Pazzo.
«Oh ma che sguardo feroce! Scommetto che vorresti farmi la pelle ora, vero? Come quella volta con quel povero cane..beh ti confiderò un segreto...» sussurrò, avanzando piano verso Simone «anche io voglio ucciderti.»
Ogni azione compiuta, in effetti, nonchè quella pistola stretta nelle mani del marocchino strafatto di crack, sembrava ora perfettamente riconducibile a questo progetto, ma anche alla luce di questa certezza, per Simone nulla cambiava: aveva tutta l'intenzione di non indagare sulle vere motivazioni del Pazzo, esattamente come aveva deciso di non indagare sul come e sul perchè tutto quello schifo stava capitando proprio a lui. Non credeva nel karma, non pensava di essersi meritato nulla di buono nè nulla di malvagio, sapeva solo che opporsi non serviva a nulla: ogni evento della sua vita doveva inevitabilmente accadere, a prescindere da qualsiasi concetto anche solo accumunabile alla parola destino. Forse era un modo troppo passivo per vivere la vita, ma non gli importava, e nella sua ottica Fabio Stovini era solo l'ennesima scocciatura del suo periodo più nero, una fase della sua vita che avrebbe potuto prevedere una luce in fondo al tunnel, oppure no. In fondo sarebbe potuto morire quella stessa sera, ma che importava: da quel pomeriggio di pochi mesi prima erano ormai passati secoli, durante i quali aveva già vissuto abbastanza per stabilire che la sua prima vita era già finita, qualche istante prima della maggiore età, e che tutto il resto non poteva altro essere che un'arrancante ricerca di una normalità oramai inesorabilmente perduta. Perchè provare a opporsi, dunque?
Allargò le braccia, mostrandosi pronto, indifeso, rassegnato, mentre Fabio "Il Pazzo" Stovini estraeva dalla tasca un coltello a serramanico facendolo ruotare tra le mani come se si trattasse della scena di un film, avvicinandosi sempre più. Ma accettare la possibilità che la sua vita potesse finire, quella sera, non significava affermare che stesse finendo: Simone non aveva la minima intenzione di soccombere senza combattere, nè il coltello del Pazzo sembrava essere più spaventoso delle zanne di Attila.
Mentre ancora quello roteava il suo coltello tutto preso dalla situazione, da se stesso e dall'effetto di chissà quali sostanze stupefacenti, Simone fece un passo rapido in avanti e, ignorando qualsiasi segnale di dolore il suo corpo gli lanciasse, afferrò il tricipite del braccio destro del Pazzo con la mano sinistra, cercando di spezzarglielo con un'improvvisa pressione sull'avanbraccio nel senso opposto, un movimento secco e deciso, che mancò di pochissimo il suo obbiettivo. Il Pazzo urlò di dolore, e immediatamente provò a colpire Simone al costato con il suo coltello, ferendolo però solamente di striscio. Quest'ultimo decise allora di bloccargli anche l'altro braccio, e di piazzare immediatamente una potente testata al suo avversario, un colpo duro e violento, che danneggiò entrambi. Per sua sfortuna, Simone non fu il più lesto a riprendersi, e non era nemmeno riuscito a far cadere il coltello dalle mani del Pazzo, il quale questa volta trovò il jackpot, infilandogli la lama nel fianco. Non c'era più molto da fare oramai: era partito in svantaggio, e non aveva saputo ribaltare le sorti di quell'incontro.
C'era ancora qualcosa, però, che si sentiva in grado di fare. Ripensò ai suoi amici, ai suoi genitori, ad Alessia: forse avrebbe sempre desiderato che lei rappresentasse qualcosa di più della sua più cara amica, e ora sapeva che quella possibilità non si sarebbe davvero mai realizzata, ma poteva impedire che un elemento come Fabio Il Pazzo Stovini potesse recarle fastidio, né a lei né a nessun altro. Attingendo alle poche energie residue afferrò saldamente Il Pazzo per la cintura, fortemente determinato a non lasciarlo andare, poi urlò con quanto fiato aveva in corpo:
«Spara Ahmed spara! Spara al fottuto bastardo! Spara! Spara!»
Fabio Stovini lo guardò con occhi sgranati, incapace di comprendere, poi si voltò e osservò il suo amico alzare la pistola, obbedendo all'ordine di Simone come se fosse il suo, senza accorgersi dell'inganno, immerso in chissà quale universo parallelo.
Poi si udirono 2 spari. Il primo sibilò a pochi centimetri dalle loro orecchie, mentre il secondo colpì in pieno la schiena di Fabio Stovini, e la trapassò infilandosi nello stomaco di Simone.
In pochi secondi il suo corpo stramazzò al suolo, e quello del suo avversario sopra al suo: sarebbe morto a minuti, lo sapeva, era inevitabile. Qualche istante dopo udì il rumore di un terzo sparo, e subito dopo il rumore del corpo di Ahmed che ruzzolava nel canale: forse resosi conto dell'accaduto in un istante di lucidità, il ragazzo doveva essersi suicidato potrandosi la pistola alla bocca. Sarebbero morti tutti i personaggi, come nelle più classiche delle tragedie greche. Chissà cosa avrebbero detto ora di lui i giornali, chissà quale storia avrebbero inventato per spiegare quei 3 cadaveri che la polizia avrebbe ritrovato in fondo a un canale, la mattina dopo. Chissà se sarebbe scomparso dai pensieri delle poche persone a cui voleva bene, subendo una damnatio memoriae per soffocare quel ricordo troppo duro da accettare, coperto da quella valanga di fango che i media avrebbero inventato.
Fu in quel momento che simone realizzò di non volere morire. Di non voler congedarsi da questo mondo consegnandosi alla storia come un pazzo assassino, perchè sapeva che avrebbero tutti in qualche modo dato a lui la colpa di quel sangue, a lui e alle sue fiamme nere. Si trascinò verso il bordo del canale ignorando il dolore, lasciando una scia di sangue dietro di sè, convincendosi che le sue ferite non erano mortali, che ce l'avrebbe fatta. Pochi metri bastarono a fargli capire quanto si sbagliava: stava morendo.
Infilò la mano all'interno del giubbotto, alla ricerca della ferita, e la estrasse ricoperta di sangue. Voleva lasciare un messaggio, un ultimo messaggio scritto con il suo stesso sangue sulla parete del canale incrostata di argilla secca, voleva fare sapere a tutti che non era stato un demone, che non sarebbe dovuta finire in quel modo, ma non poteva farcela a condensare quel pensiero in delle parole. Oramai si sentiva mancare, e non riusciva più a sopportare il freddo che da qualche secondo si stava facendo intollerabile, sicuro segnale della morte incombente. Ripensò un'ultima volta ad Alessia, accorgendosi più che mai di come quest'ultima fosse importante per lui, quindi con l'indice e il medio, quasi senza rendersene conto, disegnò 2 corte strisce verticali parallele, e con il pollice la parte inferiore di un cerchio.
Il demone era morto con un sorriso.