sabato 26 gennaio 2013

Quarto racconto della serie Zombie e incubi, e continuazione del precedente: Fiamme nere


Fiamme nere



Quella serata era stata estremamente pesante, come tutte quelle che l'avevano preceduta da almeno un anno a questa parte. Simone si sistemò il casco, ruotò le chiavi e si preparò a tornare a casa, all'alba delle 2.00 del mattino, apprestandosi a mettere fine a quell'ennesimo insulso Sabato sera. Abbandonò il pub, il "suo" pub, con la consapevolezza di un implicito addio: non c'era più posto per lui, la sua presenza altro non era che un problema oramai, per tutti quanti.
Non si era salvato, quel giorno, non veramente. I suoi zii, gli stessi che lo avevano viziato nella sua infanzia, avevano troncato ogni rapporto con lui, i suoi genitori lo temevano, i suoi coetanei l'avevano demonizzato, e ora era per tutti un diavolo, un assassino, una mente turbata e instabile. Eppure lui aveva resistito, aveva combattuto e vinto, facendo cose che in circostanze normali non sarebbe in alcun modo stato capace di fare; aveva conservato le energie, l'uso della mano, la lucidità, ma tutto questo non era valso a nulla: lui non era l'eroe che si era prefigurato di essere agli occhi della gente, ma bensì il mostro, dal quale nascondere i propri cari.
Tutto era avvenuto a favore dei mass media, e nella sua città era divenuto, in quel periodo, più famoso di uno di quei tanti cosiddetti vip presenti sulle pagine di ogni giornale. Aveva avuto la sfortuna di riempire le pagine di cronaca in un momento in cui erano vuote e desolate, e il suo caso ne era risultato amplificato, accompagnato da polemiche e discussioni, con tanto di telefonate, interviste, apparizioni televisive e critiche, mentre lui lentamente guariva e tentava, invano, di riprendersi la propria vita. Nel frattempo ogni notizia sul web o su carta stampata dava la propria versione dei fatti, fregandosene della realtà, della storia come l'aveva raccontata lui, l'unico a poterlo fare in modo corretto. Erano venuti fuori sospetti di schizofrenia, illazioni sul rapporto con i suoi zii, accuse contro un sistema violento, contro film e telefilm, videogiochi e cartoni animati: un putiferio.
La versione unanimamente accettata di quanto era accaduto era questa: dopo aver ricevuto dai suoi zii l'incarico di occuparsi del loro cane durante le vacanze estive, Simone si era recato a casa loro, incontrando difficoltà nella gestione di Attila, un alano adulto di cui la stampa aveva già provveduto a divulgare la lacrimevole storia, nonchè le infinite testimonianze di chi parlava di lui come di un inoffensivo gigante buono. A questo punto Simone doveva aver ceduto a uno scatto d'ira, reagendo in maniera spropositata e malata alle difficoltà: aveva dapprima rotto una brocca di ceramica sulla testa del cane, il quale poi aveva reagito con ferocia, indubbiamente, ma solo in risposta alla prepotenza del ragazzo; poi, invece di cercare di uscire dalla casa o chiamare qualcuno in soccorso, aveva preferito agire in modo diverso e, secondo molti, inconcepibile. Secondo le ricostruzioni degli eventi di quel pomeriggio, infatti, Simone avrebbe preferito subire delle orribili ferite fronteggiando l'alano, indugiando nella casa mentre la porta di uscita era a meno di un metro da lui, arrivando così, dopo alcune azioni difficilmente spiegabili, alla cucina, dove per mezzo di un coltello aveva brutalmente ucciso Attila.
Naturalmente non era andata così, ma proprio la sua ostinazione nel raccontare un'altra versione dei fatti, quella vera, l'aveva resa poco credibile. Simone non capiva come fosse possibile non credergli, negare la possibilità che tutto fosse nato come legittima difesa, e come potesse essere possibile immaginare che lui fosse un pazzo, che avesse voluto uccidere il cane dei suoi zii scegliendo proprio quella malsana opzione tra le mille possibili. Ma non c'erano altre opzioni, Attila voleva ucciderlo, e lui si era difeso per evitare che ciò accadesse, facendo tutto il possibile per rimanere in vita, persino il carnefice.
Aveva rischiato di perdere l'uso della mano, era rimasto sfregiato da profonde cicatrici, ma nessuno sembrava essersene accorto, a tutti sembrava solo la giusta reazione del cane alle sue angherie, e poco importava se Simone era quasi morto dissanguato: se l'era cercata. Aveva subito ore e ore di interventi in sala operatoria, era stato ricucito come se fosse stato una bambola di pezza, e nemmeno adesso, dopo oltre un anno, era in grado di stringere il pugno destro oltre una certa misura, eppure quasi non era stato compatito.
Il peggio fu tornare a scuola, nel suo istituto alberghiero, dopo un mese passato tra ospedali e apparizioni in televisione, presentandosi, agli occhi di tutti, come il ragazzo violento con problemi di instabilità mentale che aveva ucciso il cane dei suoi zii. I compagni di classe con cui aveva meno legato lo evitavano come un appestato, i ragazzi più piccoli lo seguivano, lo osservavano, come se avessero la rara opportunità di studiare la vita di un serial killer: era tutto dannatamente assurdo.
Presto iniziarono i problemi, i veri problemi: non andava a genio a molti, e questo lo sapeva, ma presto le voci, i mormorii e gli sguardi cominciarono a irritarlo anche oltre a quanto si sarebbe aspettato, e lui divenne nervoso, irascibile, violento. Il caso più esemplare al riguardo fu la rissa con alcuni ragazzi di terza, incurante delle sue ferite ancora non completamente risanate, e nella quale aveva rotto il naso e un sopracciglio a un ragazzo di nome Niccolò, Niccolò Stovini. Ne era seguita una denuncia e una sospensione, incomprensioni con i genitori, e nuova attenzione su di lui da parte dei mass media: un inferno.
Simone era saturo di questa situazione: lo dipingevano come un cane rabbioso e come un diavolo assetato di sangue? Allora avrebbero avuto quello che chiedevano, tutti quanti. Decise di tatuarsi delle fiamme nere, fino a ricoprire interamente le cicatrici sulle braccia e sulle gambe, le stesse fiamme che avrebbero dovuto avvolgerlo, a detta di tutti, se fosse stato solo la metà del demone malvagio che essi dipingevano. Anche se avrebbe dovuto provare un grande dolore tatuandosi quella pelle ancora ferita dalle zanne di Attila, Simone ricordò quei momenti come pura estasi, un processo di trasformazione in ciò che il mondo esterno aveva desiderato che fosse: un disadattato e un violento. Tutto questo lui lo accettava, rassegnato all'impossibilità di rovesciare la sentenza del popolo.
Dopo aver voluto sul corpo quei tatuaggi tutto il suo mondo cambiò: lasciò la scuola e la famiglia, trovò un lavoro come aiuto-cuoco e un monolocale in una zona malfamata della città, distante dalla sua vecchia abitazione, a 180 euro al mese. Le fiamme nere ora ricoprivano i segni dei morsi ricevuti, facendolo passare per un bullo tatuato a chi ignorava la sua storia: un ottimo modo per ricominciare, ma anche per ricordare sempre a se stesso la rabbia che lo aveva spinto a volerli. Non gli importava più nulla di nulla, e le uniche persone che gli erano rimaste vicine si contavano oramai sulle dita di una mano menomata, come gli piaceva sottolineare nelle poche serate libere trascorse al pub, lo stesso locale dal quale ora si stava allontanando con l'intenzione di non farci più ritorno.
Non era per lui che lo faceva, ma per quei suoi pochi amici che lo avevano sempre sostenuto, credendo alla sua verità e non alle menzogne dei media, giustificando la sua aggressività come normale reazione allo stress a cui veniva sottoposto. Loro erano oramai tutto per lui e, per evitare di metterli in pericolo, Simone era disposto a qualsiasi cosa. E in quel locale il pericolo era arrivato, e aveva un nome e un cognome: Fabio "Il Pazzo" Stovini.
Non aveva mai avuto modo di conoscerlo direttamente, né la prospettiva lo aveva mai allettato: di 4 anni più grande di lui, si trattava di uno dei peggiori elementi mai transitati per il suo istituto alberghiero, lo stesso in cui studiava il fratello minore Niccolò, con il quale invece aveva avuto a che fare, eccome. Quest'ultimo era un ragazzino dai capelli ingellati e le scarpe costose sempre pronto a spararle grosse alle spalle di tutti, a vantarsi di essere a conoscenza di cose che non poteva sapere semplicemente perchè non erano mai avvenute. Era stato lui, il secondo anno, a mettere in giro la voce che la sua professoressa di italiano era solita intrattenersi con alcuni ragazzi di quinta in attività di parecchio extrascolastiche, e sempre lui aveva giurato di aver visto il preside molestare una matricola con dei problemi mentali, quella volta che si era attardato a uscire dalle cucine. Per Simone Niccolò Stovini rappresentava solo della feccia,con il quale non intrattenere nessun rapporto: non era certo sua responsabilità dargli una lezione o qualcosa del genere, e il suo istituto non era uno di quelli americani dove i ragazzi più grandi dettano legge sui più piccoli. Non c'era un vero e proprio nonnismo. Qualche prepotenza, forse, qualche privilegio come i posti in fondo sul pullman, ma poco altro. Questo fino a quando uno di terza non decideva di cercar rogna con uno di quinta, ed era esattamente quello che Niccolò Stovini aveva fatto.
Niccolò, forse deluso dal fatto che dall'inizio del nuovo anno i riflettori erano puntati tutti su Simone, sul demone ammazzacani, aveva ben pensato di inventare un'altra storia, da aggiungersi alle tante che già circolavano. Sosteneva, infatti, di aver scoperto grazie alle confidenze di una ragazza di seconda con cui era stato e che aveva assistito alla scena, di essere venuto a conoscenza del fatto che Simone avesse più volte obbligato una ragazzina del primo anno, una tale Anna, a prestazioni sessuali nei bagni della scuola, minacciando, se si fosse rifiutata o lo avesse detto a qualcuno, di fare del male al fratello, un altro ragazzo di seconda con dei gravi problemi a rapportarsi con gli altri.
Ora, mettere in piedi simile accuse non avrebbe certo giovato a Niccolò, ma evidentemente quest'ultimo le considerava come un modo per partecipare, con notizie interessanti e inedite, al fatto più chiacchierato del momento, senza preoccuparsi minimamente di danneggiare con le sue menzogne una persona che nemmeno conosceva. E non era tutto: una notizia di questo tipo, riferita a prepotenze sessuali tra un ragazzo di quinta e una ragazzina del primo anno, fornivano il pretesto per accuse di pedofilia da parte di molti dei ragazzi di quinta, ovvero tra coloro che, esaurito il primo prurito sessuale, consideravano le ragazzine del primo anno quasi come delle sorelline più piccole, e queste ultime si rivolgevano proprio a loro se avevano dei problemi con dei ragazzi di poco più grandi. Si trattava dello zoccolo duro dell'istituto, ovvero di quelli forse maggiormente associabili all'idea di nonnismo: ragazzi con qualche anno in più del dovuto che credevano fosse loro dovere far rispettare le regole non scritte lasciate loro da chi li aveva preceduti, e tra questi c'era stato anche Fabio "Il pazzo" Stovini.
Quest'ultimo, con 8 anni di istituto alberghiero all'attivo, poteva essere considerato uno dei "grandi" della sua storia, e conosceva ancora molte persone grazie alle quali poteva restare a conoscenza dei vari avvenimenti salienti all'interno della scuola, ma Simone questo dettaglio non se lo ricordò affatto, mentre cambiava i connotati al fratello minore a suon di pugni. Non era sua intenzione farlo, ma non potè evitarlo, in nessun modo.
Venuto a conoscenza della fonte di quelle voci fastidiose, voci che lo urtavano e infastidivano molto di più di quelle che lo dipingevano come uno squilibrato e un violento, decise di aspettare, da solo, che Niccolò Stovini uscisse dalla sua classe, situata in un'ala laterale dell'istituto. Appena lo vide notò il terrore nei suoi occhi: doveva fargli paura, e la constatazione di questo lo mise di buon umore. Gli intimò, attraverso un semplice imperativo, di seguirlo fuori: voleva parlargli a quattrocchi, convincerlo ad ammettere di essersi inventato quella storia, mettergli un po' di paura addosso e lasciarlo andare, nulla di più. Niccolò però iniziò a sbraitare, a comportarsi come se Simone avesse in mano lo stesso coltello con cui aveva ucciso Attila, grondante sangue, e avesse intenzione di usarlo per sezionarlo in tanti piccoli pezzetti. Alla presenza di tutta la sua classe gli urlò contro di tutto: demone, pazzo assassino, pedofilo, figlio di puttana. Simone poteva lasciarsi scivolare addosso ogni insulto, certamente, ma semplicemente non ci riuscì: gli balzò addosso e lo colpì con un primo pugno, il più violento, che gli ruppe il naso, poi, appena fu a terra, con altri 3, 4 pugni, incapace di fermarsi fino a quando notò la sua mano sporca di sangue.
Era la prima volta che picchiava qualcuno, e le nocche della mano gli facevano male. La vista del sangue lo riportò a quel pomeriggio, e le cicatrici sul suo corpo pulsarono di dolore, tutte, in una solo tempo: si allontanò barcollando sulle gambe, abbandonando il suo istituto per sempre.
Dopo pochi giorni da quell'evento decise di farsi tatuare le fiamme nere che ora ricoprivano le sue ferite, e per un po' di tempo scomparì dai radar di tutti, schivando i giornalisti e i curiosi sulle sue tracce quanto meglio poteva: il suo caso era tornato alla ribalta, ed erano in molti a chiedere che un soggetto simile venisse rinchiuso da qualche parte, ma lui era ancora minorenne e, per un motivo o per l'altro, non se ne fece nulla.
Passò diverso tempo prima che si riavvicinasse ai suoi amici, scoprendo che per questi ultimi lui era sempre Simone, non un mostro, non un pazzo violento, solo una vittima delle circostanze e dello stress, uno che aveva sbagliato a perdere le staffe, certo, ma che poteva contare su ogni sorta di scusante.
In quel periodo si sentì finalmente bene. Oramai era divenuto maggiorenne, poteva contare su uno stipendio, vedeva solo chi gli andava a genio, la sua cattiva fama e i suoi tatuaggi funzionavano come repellente sul lavoro per chi avrebbe potuto, eventualmente, creargli noie. E passare ogni serata libera con i suoi amici al pub, offrirgli da bere e ascoltare le loro storie in quel momento era per lui quanto di meglio si potesse chiedere.
Quella sera era proprio una di quelle oasi di pace e tranquillità, o almeno lo era fino all'arrivo di Fabio "Il Pazzo" Stovini. Lui non lo conosceva, ma i suoi amici lo riconobbero subito; irruppe nel pub intorno a mezzanotte, con i capelli arruffati, la barba incolta nera e gli occhi da pazzo che avevano contribuito a creargli quel soprannome, precipitandosi direttamente verso il tavolo in cui si trovava Simone. Indossava una maglietta nera con il logo di un gruppo metal, una cintura con una fibbia a forma di teschio, jeans neri stracciati e un paio di anfibi militari: il tutto, abbinato alla sua altezza e alla sua mole, lo rendeva estremamente minaccioso. Era accompagnato da un ragazzo di origine marocchina, o tunisina, con un'espressione totalmente assente, troppo assente: doveva essere sotto l'effetto di qualche droga pesante, probabilmente era fatto di crack, e la cosa non lo stupiva, perchè "Il Pazzo" sembrava essere sotto l'effetto di qualcosa anche peggiore.
«Guarda Ahmed, aveva ragione il Nico: la superstar è qui!» esordì urlando a meno di un metro dal tavolino «É qui tranquillo a bersi una birra coi suoi amichetti aspettando che arrivi qualche ragazzina di 12 anni per farsi fare un servizietto eh? Ma bravo, bravo, abbiamo gli stessi gusti noi 2, sai? Ahahah!»
Simone rimase attonito, per un istante, poi esplose di rabbia: quella persona lo disgustava «Sei il fratello di quello a cui ho spaccato il naso, vero? Beh vattene, e riferisci pure a quell'idiota che per me è stato un piacere.»
Si era imposto di parlare così, con arroganza, a chiunque lo infasidisse: lui non voleva che nessun altro facesse parte della sua vita, nè nel bene, nè nel male, e questa soluzione sembrava perfetta per allontanare chiunque, ma era anche l'ideale per chi cercava solo una buona scusa per attaccar briga.
«Parole grosse per chi nella sua vita non ha ammazzato altro che un cane, grosse, troppo grosse!» fece Il Pazzo «E io che pensavo di venire qui a fare amicizia! Non è vero Ahmed? Ho detto proprio così: perchè stasera non andare a cercare il tizio che ha spaccato il naso a mio fratello e bere qualcosa con lui? E magari dopo andare a puttane insieme, oppure a sgozzare un cane...»
Simone balzò in piedi, schiumando rabbia «Vattene. Ora. O giuro che ti ammazzo.»
«Lo dicevo io che saremmo divenuti amici...» disse Il Pazzo dopo una sonora risata, e mentre parlava si tolse la maglietta, rivelando un fisico da lottatore, solcato da una duplice cicatrice su un fianco e decorato da tatuaggi di prosperose ragazze asiatiche in stile geisha.
Simone non esitò e si scagliò su di lui serrando il pugno, colpendolo nell'addome: subito nel pub si diffuse un'incontenibile agitazione, con ragazzi che si affrettavano a guadagnare l'uscita, altri che si schiacciavano contro le pareti e pochi coraggiosi che provarono a intervenire, separandoli. Tra questi apparve il proprietario del locale, un uomo di cinquantanni alto 1 metro e ottantacinque per 130 chili, e non mancò la sua missione di riportare l'ordine: Simone e Il Pazzo si ritrovarono ben presto nello spiazzo del retrobottega, deserto a parte loro, Ahmed e i 2 amici di Simone presenti al pub quella sera.
Alessia, l'unica ragazza del gruppo, fortunatamente era rimasta a casa in quell'occasione, e questo bastava a trasmettere a Simone un senso di gioia, era felice che lei non lo potesse vedere in quella situazione, all'interno di una rissa che non aveva cercato, ma che l'aveva trovato, inevitabilmente. Non si trattava della sua ragazza, ma per lei provava un affetto speciale: era stata la persona che gli era stata più vicino in tutto quel periodo, e la stessa che aveva maggiormente criticato quei suoi tatuaggi e quell'arroganza e aggressività mostrata verso tutti, come delle spine velenose innestate sulla pelle. Alessia era forse l'unica ad aver cercato, in tutti i modi, a riportare indietro il Simone precedente all'incidente, quello che se ne era andato massacrato dai media e dal fato, e se lo avesse visto in quel momento, con le pupille dilatate per la rabbia e le unghie conficcate nei palmi delle mani, avrebbe considerato fallito ogni suo tentativo presente e futuro.
Voglio farla finita alla svelta, pensò, provando come la sensazione che i suoi pensieri avessero smesso di appartenergli riempire di pugni questo bastardo e andarmene a casa, solo questo.
Dal canto suo Il Pazzo sembrava estremamente divertito dalla situazione: saltellava sul posto imitando, nella sua mente bacata, qualche film di Bruce Lee «Che dici Ahmed, metterà a segno qualche buon colpo il diavolo ammazzacani? Si? Dici che si crede forte per aver rotto il naso a quella mezza sega di mio fratello? Ah...»
In un istante, mostrando un'agilità e una velocità che nessuno tra i presenti si sarebbe aspettato, Il Pazzo percorse quei 2 metri che li separavano e colpì Simone alla bocca dello stomaco con un pugno infinitamente potentissimo. Sorpreso Simone barcollò all'indietro, ricevendo un altro fortissimo pugno dal basso verso l'alto, sotto il mento, che lo fece crollare a terra: in pochi secondi aveva perso su tutta la linea.
Il Pazzo, però, sorprese tutti, evitando di infierire o vantarsi: girò i tacchi, recuperò la maglietta dalle mani di Ahmed e si apprestò ad andarsene, quindi si voltò e disse, rivolgendosi a Simone «Sei solo una mezza sega. Credevo sarebbe stato divertente, ma mi sbagliavo.»
Non appena se ne fu andato gli amici di Simone si precipitarono a prestargli soccorso, a chiedergli come stava, e lui si affrettò a rassicurarli sul fatto che stava bene, ma in realtà sapeva che non avrebbe potuto fare nulla se Il Pazzo avesse deciso di prendersela anche con loro, e la possibilità che ci fosse stata anche Alessia a quella serata lo terrorizzava: non poteva permettersi di mettere in pericolo nè lei nè gli altri, mai più. Fu per questi motivi che decise che non sarebbe più tornato in quel pub. Certo sarebbe uscito ancora con i suoi amici, ma per un po' di tempo sarebbe stato meglio sparire, anche da loro.
Dopo poche centinaia di metri a bordo del suo scooter Simone iniziò a sentire il dolore dei colpi subiti, fino a quel momento tenuto a freno dall'adrenalina: il giorno dopo si sarebbe trovato un bel livido sullo stomaco, e sentiva nella bocca il sapore del sangue. Svoltò per la stradina alternativa che gli avrebbe permesso di tagliare tutto il centro e sbucare direttamente nella zona della sua abitazione, quando, ben presto, si accorse di avere una macchina dietro di sè. Si trattava di una presenza inusuale per quel tragitto, e alquanto problematica, dato che, se intendeva superarlo, non c'era letteralmente lo spazio fisico per farlo, o meglio c'era, ma lui sarebbe di certo finito nel marcilento corso d'acqua che scorreva al lato della strada.
Il guidatore dell'autovettura sembrò però non accorgersi di questa difficoltà, e accellererò improvvisamente, portandosi a ridosso della sua targa, acceccandolo con un colpo di abbaglianti. Simone lo maledisse, e tentò di accostarsi il più possibile per permettergli di superarlo, ma con sua grande sorpresa l'auto sterzò e gli venne addosso, facendolo cadere inesorabilmente nel canale. Tutto avvenne troppo rapidamente: lo scontro tra la sua ruota e il paraurti dell'auto, la caduta, lo schianto nei pochi centimetri d'acqua del canale mentre evitava per pura fortuna che lo scooter gli cadesse addosso, il dolore esteso a tutto il corpo.
Lo avevano investito, deliberatamente, e per poco non era morto: era sicuro di avere qualche costola rotta, e ogni parte del suo corpo poteva contare su una lacerazione o un livido. Si appoggiò sulla schiena, mettendosi a sedere sul fondale ricoperto di una melma verde e densa, cercando con lo sguardo di capire chi fosse il responsabile di quell'attentato alla sua vita: una parte di sè non rimase affatto sorpresa di quel che vide, ma semplicemente lo accettò, come naturale epilogo dei fatti. Il Pazzo uscì dalla sua auto con tutta calma, fumando una sigaretta, mentre dal lato passeggero Ahmed faceva capolino obbedendo a un suo ordine, brandendo una pistola con aria distratta.
«Uh uh, ancora vivo ammazzacani? Grandioso, grandioso!» esclamò Il Pazzo, e senza esitare saltò giù per le pareti del canale, mostrando un'agilità e un senso dell'equilibrio davvero impressionanti.
«Cos'è quell'espressione? Non mi dire che non ti aspettavi di rivedermi...siamo amici da questa sera, e io dedico completamente la serata ai miei amici, senza lasciarli soli un momento, o potrebbero finire chissà dove, chissà in quali guai...meglio che ci sia sempre lo zio Fabio a guardargli sempre le spalle no? Non sei felice di vedermi allora? No?»
Il suo soprannome mai sembrò più appropriato: era un pazzo. Simone lottava contro il dolore dovuto alla caduta, non riusciva a trovare nè la forza di rialzarsi nè quella di riversare addosso a quello strano personaggio tutta la sua rabbia: era tutto assurdo. Si rimise in piedi, infine, cercando di ignorare la terribile fitta di dolore proveniente dal fianco, e lanciò una lunga, torva occhiata al Pazzo.
«Oh ma che sguardo feroce! Scommetto che vorresti farmi la pelle ora, vero? Come quella volta con quel povero cane..beh ti confiderò un segreto...» sussurrò, avanzando piano verso Simone «anche io voglio ucciderti.»
Ogni azione compiuta, in effetti, nonchè quella pistola stretta nelle mani del marocchino strafatto di crack, sembrava ora perfettamente riconducibile a questo progetto, ma anche alla luce di questa certezza, per Simone nulla cambiava: aveva tutta l'intenzione di non indagare sulle vere motivazioni del Pazzo, esattamente come aveva deciso di non indagare sul come e sul perchè tutto quello schifo stava capitando proprio a lui. Non credeva nel karma, non pensava di essersi meritato nulla di buono nè nulla di malvagio, sapeva solo che opporsi non serviva a nulla: ogni evento della sua vita doveva inevitabilmente accadere, a prescindere da qualsiasi concetto anche solo accumunabile alla parola destino. Forse era un modo troppo passivo per vivere la vita, ma non gli importava, e nella sua ottica Fabio Stovini era solo l'ennesima scocciatura del suo periodo più nero, una fase della sua vita che avrebbe potuto prevedere una luce in fondo al tunnel, oppure no. In fondo sarebbe potuto morire quella stessa sera, ma che importava: da quel pomeriggio di pochi mesi prima erano ormai passati secoli, durante i quali aveva già vissuto abbastanza per stabilire che la sua prima vita era già finita, qualche istante prima della maggiore età, e che tutto il resto non poteva altro essere che un'arrancante ricerca di una normalità oramai inesorabilmente perduta. Perchè provare a opporsi, dunque?
Allargò le braccia, mostrandosi pronto, indifeso, rassegnato, mentre Fabio "Il Pazzo" Stovini estraeva dalla tasca un coltello a serramanico facendolo ruotare tra le mani come se si trattasse della scena di un film, avvicinandosi sempre più. Ma accettare la possibilità che la sua vita potesse finire, quella sera, non significava affermare che stesse finendo: Simone non aveva la minima intenzione di soccombere senza combattere, nè il coltello del Pazzo sembrava essere più spaventoso delle zanne di Attila.
Mentre ancora quello roteava il suo coltello tutto preso dalla situazione, da se stesso e dall'effetto di chissà quali sostanze stupefacenti, Simone fece un passo rapido in avanti e, ignorando qualsiasi segnale di dolore il suo corpo gli lanciasse, afferrò il tricipite del braccio destro del Pazzo con la mano sinistra, cercando di spezzarglielo con un'improvvisa pressione sull'avanbraccio nel senso opposto, un movimento secco e deciso, che mancò di pochissimo il suo obbiettivo. Il Pazzo urlò di dolore, e immediatamente provò a colpire Simone al costato con il suo coltello, ferendolo però solamente di striscio. Quest'ultimo decise allora di bloccargli anche l'altro braccio, e di piazzare immediatamente una potente testata al suo avversario, un colpo duro e violento, che danneggiò entrambi. Per sua sfortuna, Simone non fu il più lesto a riprendersi, e non era nemmeno riuscito a far cadere il coltello dalle mani del Pazzo, il quale questa volta trovò il jackpot, infilandogli la lama nel fianco. Non c'era più molto da fare oramai: era partito in svantaggio, e non aveva saputo ribaltare le sorti di quell'incontro.
C'era ancora qualcosa, però, che si sentiva in grado di fare. Ripensò ai suoi amici, ai suoi genitori, ad Alessia: forse avrebbe sempre desiderato che lei rappresentasse qualcosa di più della sua più cara amica, e ora sapeva che quella possibilità non si sarebbe davvero mai realizzata, ma poteva impedire che un elemento come Fabio Il Pazzo Stovini potesse recarle fastidio, né a lei né a nessun altro. Attingendo alle poche energie residue afferrò saldamente Il Pazzo per la cintura, fortemente determinato a non lasciarlo andare, poi urlò con quanto fiato aveva in corpo:
«Spara Ahmed spara! Spara al fottuto bastardo! Spara! Spara!»
Fabio Stovini lo guardò con occhi sgranati, incapace di comprendere, poi si voltò e osservò il suo amico alzare la pistola, obbedendo all'ordine di Simone come se fosse il suo, senza accorgersi dell'inganno, immerso in chissà quale universo parallelo.
Poi si udirono 2 spari. Il primo sibilò a pochi centimetri dalle loro orecchie, mentre il secondo colpì in pieno la schiena di Fabio Stovini, e la trapassò infilandosi nello stomaco di Simone.
In pochi secondi il suo corpo stramazzò al suolo, e quello del suo avversario sopra al suo: sarebbe morto a minuti, lo sapeva, era inevitabile. Qualche istante dopo udì il rumore di un terzo sparo, e subito dopo il rumore del corpo di Ahmed che ruzzolava nel canale: forse resosi conto dell'accaduto in un istante di lucidità, il ragazzo doveva essersi suicidato potrandosi la pistola alla bocca. Sarebbero morti tutti i personaggi, come nelle più classiche delle tragedie greche. Chissà cosa avrebbero detto ora di lui i giornali, chissà quale storia avrebbero inventato per spiegare quei 3 cadaveri che la polizia avrebbe ritrovato in fondo a un canale, la mattina dopo. Chissà se sarebbe scomparso dai pensieri delle poche persone a cui voleva bene, subendo una damnatio memoriae per soffocare quel ricordo troppo duro da accettare, coperto da quella valanga di fango che i media avrebbero inventato.
Fu in quel momento che simone realizzò di non volere morire. Di non voler congedarsi da questo mondo consegnandosi alla storia come un pazzo assassino, perchè sapeva che avrebbero tutti in qualche modo dato a lui la colpa di quel sangue, a lui e alle sue fiamme nere. Si trascinò verso il bordo del canale ignorando il dolore, lasciando una scia di sangue dietro di sè, convincendosi che le sue ferite non erano mortali, che ce l'avrebbe fatta. Pochi metri bastarono a fargli capire quanto si sbagliava: stava morendo.
Infilò la mano all'interno del giubbotto, alla ricerca della ferita, e la estrasse ricoperta di sangue. Voleva lasciare un messaggio, un ultimo messaggio scritto con il suo stesso sangue sulla parete del canale incrostata di argilla secca, voleva fare sapere a tutti che non era stato un demone, che non sarebbe dovuta finire in quel modo, ma non poteva farcela a condensare quel pensiero in delle parole. Oramai si sentiva mancare, e non riusciva più a sopportare il freddo che da qualche secondo si stava facendo intollerabile, sicuro segnale della morte incombente. Ripensò un'ultima volta ad Alessia, accorgendosi più che mai di come quest'ultima fosse importante per lui, quindi con l'indice e il medio, quasi senza rendersene conto, disegnò 2 corte strisce verticali parallele, e con il pollice la parte inferiore di un cerchio.
Il demone era morto con un sorriso.

giovedì 24 gennaio 2013

terzo racconto della serie Zombie e incubi: Attila



Attila


Fissando sconsolato il fermo immagine del suo pc, Simone si augurò con tutto se stesso che quella conversazione telefonica volgesse presto al termine «Si zia, certo...si tranquilla...non c'è problema, davvero...si farò come se fossi a casa mia, tranquilla, sai che non mi faccio riguardi...bene...si...si si...bene, divertitevi, ci sentiamo presto...se ho problemi chiamo, certo...ciao...» concluse, pigiando finalmente il tasto rosso del suo cellulare.
Che gran seccatura, pensò. I suoi zii andavano in vacanza, e non avevano trovato nessun altro a cui rifilare l'incarico di occuparsi del loro cane se non lui. Non i vicini di casa, tutti in montagna, non i suoi genitori, al mare, nè alcuna altra persona di cui si fidassero completamente entambi e così, non nascondendo una certa riluttanza, Simone aveva accettato. Purtroppo per lui in vacanza c'era già andato, a Luglio con gli amici, e ora era completamente libero, senza alcuna scusa per non prendersi quell'impegno, esattamente come ci si poteva aspettare da uno studente di 17 anni.
Non sarebbe stato nulla di straordinario, si intende, quell'incarico di occuparsi dell'animale domestico dei suoi zii, se non fosse che quell'animale era Attila, un alano adulto che lo odiava sin dalla prima volta che l'aveva visto.
Simone ricordò l'evento del loro primo incontro come se fosse avvenuto solo pochi giorni prima, anche se in realtà erano passati più di 5 anni, all'epoca andava ancora in prima media. Non era mai stato un assiduo frequentatore della casa dei suoi zii, di solito passavano loro a salutare lui e i suoi genitori, ma ricordò che in quell'occasione sua zia aveva chiamato a casa, pregandoli di passare perchè aveva una bellissima sorpresa da mostrare: dopo anni in cui l'aveva desiderato, trovando però l'opposizione del marito, finalmente aveva preso un cane. Naturalmente l'evento era stato voluto da una qualche entità superiore, perchè l'animale era giunto in casa sua dopo una serie di avventure rocambolesche: abbandonato con una zampa rotta nei pressi di una stazione di servizio, era stato trovato da uno degli operai che lavoravano per suo zio, portato in ditta, curato e adottato da tutti per qualche settimana, fino a che la coppia aveva deciso di ricontattare il veterinario, fargli fare tutti i controlli del caso e di tenerlo con loro, data anche la sua ritrovata salute e la giovane età. Sua zia ne aveva parlato talmente bene al telefono che lui era entusiasta all'idea di vedere quel cane miracolato, dimenticando perfino il suo naturale odio verso i cani in genere, un odio che naceva dalla loro abitudine di sbraitare semplicemente se passava velocemente vicino alle loro case, con tutta l'intenzione di farsi gli affari propri. Non concepiva una simile stupidità da parte loro,specie se contrapposta alla naturale indifferenza e diffidenza dei gatti, quelli che lui considerava come gli unici animali domestici con un senso logico.
Si aspettava un normalissimo cane, magari con il muso triste e gli occhi grandi di chi era stato abbandonato, non un alano grande come un armadio nonostante il veterinario avesse garantito che non doveva avere più di un anno. Ricordò di essere sceso dalla macchina nell'aia dei suoi zii -residenti in campagna, quindi con lo spazio adatto per tenere degli animali- e di essersi incamminato verso la porta della loro casa impaziente di capire com'era quel cane che aveva reso sua zia tanto entusiasta, ma di essersi bloccato a pochi metri dalla porta, paralizzato da un ringhio basso e minaccioso, e di essere sbiancato in volto quando dalla finestra apparve il muso dell'alano, inferocito. Per anni pensò che si trattasse solo di un'impressione: quel cane era buono con tutti, si esibiva in capriole, lasciava che chiunque lo malmenasse bonariamente per poi giocare mordendo con delicatezza mani e polsi. Si comportav così con tutti tranne che con lui, con il quale non mostrava altro che diffidenza, sospetto, rabbia.
Suo zio aveva deciso di chiamarlo Attila quasi per scherzo, per far spaventare chiunque andasse a trovarlo per via di quel nome solenne associato a un aspetto tanto imponente; eppure rideva di questa scelta, garantendo a tutti il proprio cane come una specie di gigante buono, incapace di far male a una mosca; un gigante con cui, però, Simone non aveva il minimo feeling. Ogni volta che finiva, per un motivo o per l'altro, per andare dai suoi zii, quel cane lo minacciava, trattenuto solo dai suoi padroni, eppure solo lui sembrava accorgersene, per gli altri erano solo sciocchezze: era per via di qualche odore che aveva addosso, dicevano, era perchè lui per prima guardava male la povera bestiola...balle, dovevano essere ciechi per non accorgersi che Attila lo odiava, e di conseguenza Simone odiava lui.
Ora, essendo residenti in campagna -ma non in aperta campagna, diciamo al limitare della periferia- i suoi zii potevano contare su un numero esiguo di vicini: solamente un paio, e al momento non erano disponibili, al pari dei suoi genitori. Questo lo aveva capito, ma rivolgersi alui per un simile incarico significava negare l'evidenza: quel cane lo odiava, e l'odio era reciproco. Come avrebbe fatto, inoltre, a gestire quel bestione alto e grosso come un cavallo? Era follia pura, ma non se l'era sentita di rifiutare un favore proprio ai suoi zii, che con lui erano sempre stati tanto generosi: sin da piccolo lo avevano viziato, prima con le macchinine, poi con i videogiochi, quindi con mance generose per uscire con gli amici e partecipando alle spese con i suoi genitori per regalargli il motorino dei suoi sogni. Non poteva rifiutare loro un favore, questo no.
Simone arrivò a casa dei suoi zii intorno alle 11 di mattina: aveva ricevuto precise istruzioni in merito. Parcheggiò il motorino praticamente accanto alla porta d'ingresso, e non appena spense il motore sentì il concerto di benvenuto di Attila, composto da latrati furiosi e poderose zampate contro la gabbia di ferro nella quale era rinchiuso. Quest'ultima era una novità recente: in precedenza i suoi zii lo lasciavano scorrazzare libero per la corte, ma poi, dietro le sollecitazioni dei loro vicini, del postino e di chiunque si ritrovasse, suo malgrado, a doversi avvicinare alla loro casa, suo zio gli aveva costruito quell'enorme gabbia, sacrificando, per farlo, più di metà del suo giardino.
Simone si avvicinò alla gabbia con passo sicuro, ignorando lo sguardo assassino di Attila, cercando di comportarsi esattamente secondo le istruzioni di suo zio, perchè certo non era andato lì allo sbaraglio, come invece sarebbe successo se tutto fosse dipeso solo da sua zia; aveva fatto delle prove, anche se la presenza del padrone della bestia rendeva tutto più semplice, e ora il padrone non c'era, e Attila avrebbe dovuto capire che in quel frangente lui ne era una specie di surrogato. Davanti all'ingresso della gabbia suo zio aveva piazzato una specie di largo portaombrelli, riparato dalla pioggia grazie al tettuccio della gabbia stessa, contenente tutti gli attrezzi che gli sarebbero serviti, tra i quali uno scopettone di paglia, una paletta, un paio di guanti e un pezzo di banbù lungo un metro ribattezzato da suo zio con un mome proprio: Ernesto.
Quella del bastone era stata chiaramente una trovata di suo zio: gli aveva raccontato un'infinità di volte di averlo trovato per caso andando a pescare, e di averlo raccolto notando dei fori insoliti al centro della canna, dovuti all'azione di chissà quale insetto o verme, e che gli ricordarono un volto spaventoso come quello dei totem, così lo raccolse, lo ripulì e lo mostrò al cane, che ne rimase spaventato. Suo zio decise allora di tenere quel bastone, di dargli un nome proprio, e di affidargli il compito di minacciare il suo amato cagnolino con quello strumento se non si fosse comportato bene, ed era pronto a garantire sulla sua efficacia, e sulla paura di Attila nel caso gli avesse intimato "và che prendo Ernesto!".
Mah pensò Simone, si tratta di un bastone lungo un metro, è quello che lo spaventa, non il fatto che sia il suo bastone o quelli stupidi fori che non sembrano neanche una faccia...beh, proviamo subito. Simone afferrò dunque il bastone, e agitandolo intimò ad Attila di stare indietro: il cane parve capire e calmarsi, fino addirittura a guaire: un successone. Attila indietreggiò fino a entrare nella sua cuccia, e fu allora che Simone capì che, forse, quanto gli aveva garantito suo zio non era poi così folle, e guardò con tronfiezza il pezzo di banbù che stringeva tra le mani, con quei fori simili a un volto squadrato. E bravo Ernesto.
Simone avvicinò la mano al meccanismo di chiusura della gabbia, esitò un istante e quindi la aprì; in seguito, imitando il gesto che gli aveva insegnato suo zio, invitò Attila ad uscire, mentre lui infilava i guanti ed entrava con scopettone e paletta, adagiando Ernesto nello stesso posto in cui l'aveva trovato. Con la coda dell'occhio osservò il cane correre per l'aia, mentre lui nel frattempo svolgeva l'ingrato compito di pulire la gabbia dai suoi escrementi, gettandoli poi in una specie di pozzo nero pensato proprio per quella funzione. Fatto questo prese la canna dell'acqua e la puntò sul fondo della gabbia appena ripulito, completando così la sua opera di pulizia secondo i dettami di suo zio. Fino a quel momento era andato tutto bene, anche più di quanto aveva immaginato. Si dedicò dunque ad annaffiare il prato, le piante e i fiori, mentre Attila lo ignorava completamente, tronfio della sua momentanea libertà, una libertà che per Simone poteva anche finire lì: non era certo un benefattore, e giudicava quella ventina di minuti fuori dalla gabbia più che sufficienti.
«Attila!! Dentro! Su dai! Torna dentro! Và che ho qui Ernesto!» urlò Simone al cane agitando il bastone di banbù appena recuperato.
Purtroppo per lui non ottenne l'effetto sperato: Attila dapprima si fermò, guaendo al suono di quel nome, poi lo guardò incuriosito, quindi gli mostrò i denti senza scuotersi dalla sua posizione. Non poteva essere tanto semplice, e Simone questo purtroppo se lo aspettava.
Non gli andava di sprecare energie inutilmente, nè di farsi mordere da quell'armadio a 4 ante, perciò decise di telefonare ai suoi zii per chiedergli un consiglio, quindi estrasse dalla tasca il cellulare e compose il numero, rimanendo in attesa: nulla, chissà dov'erano, e senza cellulare con loro. Ricordò che era abitudine di sua zia quella di viziare il cane mettendo del ghiaccio nella sua ciotola d'acqua all'interno della gabbia, un'attenzione che Attila sembrava molto gradire. Immaginò, perciò, che un trucchetto simile potesse funzionare in quel frangente, quindi si avviò verso l'uscio di casa per metterlo in atto, continuando però a tenere il bastone puntato sul cane per contrastare un suo attacco: era tremendamente prevenuto nei suoi confronti, ma credeva di non esagerare minimamente.
Non appena arrivò alla porta diede per un attimo le spalle al cane, cercando la giusta chiave, e in quell'istante sentì raspare fortemente il terreno: con uno scatto Attila si era portato a meno di un metro da lui, ringhiando minaccioso. Simone fece appena in tempo a voltarsi, con il bastone in mano, piantandolo dell'aia allo stesso modo in cui avrebbe fatto Gandalf nel signore degli anelli, intimando il silenzio al nemico. La cosa funzionò: Attila, pur minaccioso, smise di ringhiare, apparentemente rassegnandosi al fatto che un estraneo entrasse nella casa dei suoi padroni, perchè nella sua mente Simone doveva per forza essere un estraneo o un nemico. Quel maledetto cane non aveva ancora capito che era lì per lui, su precisa disposizione dei suoi padroni: gli dava sui nervi. Ora ti prendo il ghiaccio e poi non vengo a liberarti più fino a domani, così impari: grosso come sei non morirai certo di fame, pensò, soddisfatto della sua idea.
Simone spinse la maniglia e varcò la porta, richiudendosela alle sue spalle, quindi appoggiò chiavi e cellulare sul tavolo della cucina, liberando le tasche dalla loro fastidiosa presenza: non appena fosse riuscito a richiudere il cane nella gabbia sarebbe ripassato da lì per mangiare qualcosa come aperitivo prima del pranzo, dato che se l'era ben guadagnato e che casa degli zii traboccava di snack e bibite, messe in fresca nel frigorifero appositamente per lui.
Aprì il freezer alla ricerca del ghiaccio: il suo piano era quello di uscire di casa, mostrarlo al cane e poi metterglielo nella ciotola all'interno della gabbia, rinchiuderci dento l'animale e tanti saluti, l'avrebbe rivisto soltanto quella sera, ma non ebbe modo di attuare quel piano. Per prima cosa fu sorpreso da un rumore, una specie di clang metallico proveniente dalla porta, poi, un attimo dopo, un tremendo peso si abbattè sulla sua schiena, facendolo cadere e sbattere la testa contro lo spigolo del frigorifero. Un secondo dopo si ritrovò disteso a terra, con un dolore incredibile al capo e la mano destra stretta nelle fauci di Attila, il quale evidentemente era riuscito ad aprire la porta con un colpo dell'enorme zampa.
Il gigantesco alano gli stava letteralmente stritolando la mano tra le sue fauci, mentre Simone poteva sentire rivoli di sangue colargli lungo il braccio. Come se non bastasse il colpo alla testa rallentava di alcuni secondi la sua percezione di quanto stava realmente accadendo: Attila lo aveva aggredito, aveva aspettato che gli desse le spalle e aveva attaccato, dando sfogo a un desiderio, evidentemente, a lungo trattenuto. Vigliacco di un cane.
Simone cercò di opporre la massima resistenza, ma la forza dell'alano era impareggiabile, la sua stretta tremenda. Annaspò sul pavimento, cercò di tirarsi in piedi, ma fu tutto inutile: Attila lo inchiodava a terra, e sembrava che lui non potesse fare nulla per opporsi a questa sua volontà. Cercò allora di sferrargli dei colpi sul muso con la mano libera, ma si rivelarono scarsamente efficaci, sia perchè non era mancino che a causa del dolore lancinante che gli inibiva le forze. Cercò freneticamente qualcosa intorno a sè da poter usare per rendere la sua mano sinistra più efficace: alla sua destra c'era una pila di giornali vecchi in un cesto di vimini, dietro di sè il frigorifero, alla sua sinistra il tavolo. Nulla. Poi gettò lo sguardo oltre la possente figura impegnata a staccargli un polso, e notò un'anfora tra i soprammobili posti da sua zia sopra al tavolino basso accanto al divano: doveva raggiungerla. Con un notevolissimo sforzo addominale si portò con il volto all'altezza del muso del cane, quindi gettò il suo peso al di là del grosso animale, alla sua sinistra, con il risultato immediato di rischiare seramente di perdere la mano, rimasta saldamente nelle fauci di Attila nel corso del suo movimento scomposto. Era riuscito, però, ad arrivare abbastanza vicino alla brocca in ceramica da poterla afferrare, e con un rapido gesto la spaccò sulla testa del cane, il quale finalmente lasciò la presa.
Simone osservo quasi al rallentatore i cocci di ceramica cadere sul pavimento, uno dopo l'altro, come incantato da quell'effetto scenico simile a una pioggia di cristalli: aveva perso parecchio sangue, e probabilmente la testa iniziava a dargli noie. Cercò di mettersi in piedi, ma incespicò goffamente, quindi ci riprovò e, barcollando, ci riuscì. Pensò di guadagnare l'uscita, ma Attila sembrava essersi già ripreso dal colpo subito, e si frapponeva tra lui e la porta, cosicchè l'unica opzione possibile era imboccare il corridoio alla sua destra. Fatto questo si accorse di come anche Attila si fosse mosso nella sua direzione, così che si ritrovò costretto a tuffarsi di getto nella prima porta davanti a sé: quella del bagno.
Varcò la soglia di slancio, e la richiuse in un attimo dietro di sè, appena un attimo prima di sentire il pesante corpo dell'alano urtare con tutta la sua forza contro la porta stessa, facendone vibrare i cardini. Simone vi si sedette contro, sperando allo stesso tempo di aumentarne l'inviolabilità grazie all'aggiunta del suo peso, e di guadagnare un momento per riprendersi e fare il punto su quell'assurda situazione.
Attila lo aveva attaccato, e gli aveva quasi staccato una mano. Simone si esaminò la ferita: doveva essere piuttosto seria, dato che tra i brandelli di carne e il sangue riusciva a distinguere i propri tessuti muscolari. Brutta storia. Doveva fare qualcosa per quella ferita, e subito, ma non osava staccarsi dalla porta, e l'unica cosa che poteva sostituirlo come peso era il cesto della biancheria sporca, che non sarebbe servito a nulla. Decise allora di credere nei cardini della porta, e si alzò in piedi, incerto, alla ricerca di qualcosa che potesse tamponare il danno, frugando con la mano sinistra tra i cassetti posti sotto alla grande specchiera del bagno, ma non trovò nulla di utile: evidentemente i suoi zii tenevano sia le medicine che il necessario per un primo soccorso in un altro posto. Maledizione.
Anche se sapeva che lo avrebbe fatto urlare dal dolore immerse la mano destra nell'acqua tiepida del lavandino, l'agitò per cercare di scrollargli di dosso la più alta quantità possibile di batteri, la sistemò meglio che poteva e poi l'avvolse in una salvietta pulita, fissandola con degli elastici per capelli trovati adagiati sul bordo della vasca. Queste operazioni l'avevano sfinito, e tornò ad adagiarsi contro la porta, cercando una soluzione al suo problema.
Dall'altra parte della porta c'era un alano infuriato che voleva ucciderlo, e lui era chiuso in un bagno con le inferriate alla finestra, senza cellulare con sè, senza vicini che avrebbero potuto udire una sua richiesta d'aiuto, e con una ferita aperta che grondava sangue, eccitando l'olfatto del maledetto cane. In effetti Simone si accorse di essere seduto su una vera e propria pozza del proprio sangue, come in un film dell'orrore, in cui lui era la vittima, e Attila il carnefice, perchè non c'era alcun dubbio in proposito: l'enorme alano voleva ucciderlo. Simone prese dunque una decisione, del tutto inoppugnabile: avrebbe ucciso Attila, coniugando la legittima difesa con il viscerale odio che provava per l'animale. Non gli importava cosa ne avrebbero pensato i suoi zii, i suoi genitori o chiunque altro, la sua mano pulsava odio e chiedeva vendetta.
Si alzò ancora dalla sua postazione, ignorando le zampate del cane sulla porta, e barcollò per l'intero bagno alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, da usare come arma, ma, anche stavolta, non trovò nulla di lontanamente simile a quanto stava cercando. Non un manico di scopa, né delle forbici, nemmeno il cavo di un qualche elettrodomestico: l'unico, quello del phon, era ridicolmente corto. Aveva a disposizione solo spazzolini, dentifricio, profumi, schiuma da barba, inoffensivi rasoi, carta igienica, bagnischiuma e una quantità non indifferente di salviette e asciugamani: un oceano di cose inutili. Naturalmente poi doveva fare i conti con il dolore insopportabile alla mano destra, con il mal di testa e il poderoso bernoccolo che stava spuntando sulla sua tempia e sul notevole quantitativo di sangue perso che l'aveva enormemente indebolito.
Il sangue...osservò nuovamente la porta, e la pozzanghera rossa piena del suo sangue che doveva arrivare fino al corridoio, imbrattando di cremisi le zampe della bestia, eccitandola: ne erano la prova i tremendi latrati dell'alano. Ci aveva già riflettuto, ma ora gli venne in mente che poteva usare la cosa a proprio vantaggio, seppure la sua idea fosse piuttosto azzardata, e fosse incentrata unicamente nello sfruttare a proprio vantaggio le prodigiose capacità dell'olfatto canino. Il suo piano era semplice: svuotare un contenitore di bagnoschiuma del suo prodotto, riempirlo di profumi e gettarlo in una volta sola sotto la fessura della porta, sperando che il potente mix di fragranze causasse almeno per un momento una sorta di blackout al cane. Non appena lo avesse sentito starnutire avrebbe aperto la porta, gli avrebbe tirato un calcio con quanta forza aveva in corpo e poi avrebbe raggiunto la cucina, con il ceppo di coltellacci in acciaio come ultimo obbiettivo; avrebbe scelto il più grosso, quindi l'avrebbe finalmente piantato nel collo della bestia, era sicuro che a quel punto non avrebbe esitato a farlo.
L'idea non era un granchè, certo, ma che altro avrebbe potuto fare? Non poteva certo aspettare un'illuminazione che comunque difficilmente sarebbe arrivata, e inoltre la gravità della ferita gli imponeva di agire, aveva urgente bisogno di cure e ogni telefono in quella casa era nella cucina. Afferrò dunque un flacone di bagnoschiuma dalla doccia, nè vuotò il contenuto nel lavandino e lo risciacquò velocemente, per evitare che si generasse troppa schiuma, quindi iniziò febbrilmente a vuotarci dentro ogni singolo contenitore di profumo trovato, preparando un composto dal valore di centinaia di euro: era questa forse l'ultima cosa di cui si preoccupava. Non appena ebbe terminato afferrò un asciugamano, lo gettò ai piedi della porta e assorbì tutto il suo sangue, trattenendo a stento un conato di vomito, quindi si preparò a mettere in atto il suo piano, gettando il contenuto del flacone in modo che la maggior quantità possibile di prodotto raggiungesse il corridoio e le sensibili narici dell'alano.
Rimase in attesa un secondo, poi due, infine fu estremamente sollevato nel sentire un rumoroso starnuto da parte di Attila, seguito da un altro e un altro ancora: era il momento, e Simone non esitò a spalancare la porta caricando contemporaneamente il piede sinistro, quindi colpì violentemente il muso del cane -momentaneamente impietrito sia per l'effetto del mix di profumi che per la sorpresa- come se fosse stato un pallone da calcio.
Esaltato per la buona riuscita del suo piano, Simone perse forse un secondo più del necessario nel compiacersi di se stesso, e dopo un passo in direzione della cucina venne atterrato da un balzo di Attila, velocemente ripresosi dal suo calcio, ritrovandosi faccia a terra contro il pavimento. Non ebbe il tempo di rammaricarsi per lo scarso esito del suo attacco: Attila gli fu addosso in un attimo, cercando di sbranarlo alla nuca: Simone fece appena in tempo a voltarsi sul fianco destro intercettando le fauci del cane con l'avanbraccio sinistro, urlando per il dolore. Nel mentre, però, notò che a meno di mezzo metro da lui si trovavano vari cocci della brocca andata in frantumi, che uno di quei pezzi era simile a una grossa scheggia triangolare, e sembrava appuntita: se fosse riuscito a liberarsi dalla presa avrebbe potuto usarla come arma.
Si trovava, in quel momento, tra il corridoio e la porta, aperta, della cucina, in uno spazio estremamente angusto: provò quindi, facendo affidamento alla forte morsa delle fauci di Attila sulla sua carne, a fargli picchiare la testa contro il muro, o contro gli stipiti della porta, attraverso un movimento secco e deciso del suo braccio. L'operazione riuscì, anche se solo parzialmente: Simone riuscì a far picchiare la testa dell'alano contro il muro del corridoio, ma non a fargli mollare la presa, che rimase ben salda, e tremendamente dolorosa. Riuscì tuttavia ad avanzare, strisciando, di quel mezzo metro necessario per afferrare la scheggia di coccio con la mano destra, ma appena cercò di stringerla tra le dita il dolore gli parve insostenibile, e per un momento credette di svenire.
Devo farcela...Devo! Raccolse tutte le sue energie per cercare di stringere meglio che poteva il frammento di brocca, quindi, con una buona dose di fortuna, riuscì a colpire Attila nell'occhio sinistro, riuscendo nell'intento di farlo guaire e liberarsi così dalla sua morsa. Oramai aveva entrambe le braccia grondanti di sangue, e la sua sopportazione del dolore era arrivata quasi al limite, soprattutto dopo lo sforzo imposto ai muscoli e ai tendini della sua martoriata mano destra. Provò ad alzarsi in piedi, e vi riuscì, ma aveva la vista completamente annebbiata, e barcollò pesantemente sulla destra, finendo per dare una sonora spallata al muro.
Avrebbe voluto accasciarsi in quel punto, riprendere le forze, dormire persino, ma il ringhio di Attila lo riportò alla realtà: l'alano era ferito, furioso e insoddisfatto, dato che il suo bersaglio era ancora vivo. Il cane gli balzò addosso in un attimo, con quel grumo sanguinolento al posto dell'orbita sinistra a renderlo ancora più feroce, e Simone si vide finito.
Reagì per puro istinto, sferrando un calcio all'addome del cane, un colpo che lo mandò a sbattere contro il mobiletto alla sua sinistra, e che gli garantì la possibilità di compiere altri 2 passi in direzione del ceppo dei coltelli, prima che Attila si riprendesse e gli balzasse nuovamente contro la schiena, mandandolo a sbattere contro il tavolo. Per sua fortuna questa volta non cadde in terra, e il danno si limitò a una gran botta all'altezza del petto, che gli spezzò il fiato. Riuscendo nell'impresa di voltarsi di getto -esclusivamente per effetto dell'adrenalina, immaginò, cos'altro- Simone cercò di allontanare Attila scalciandolo malamente, mentre quest'ultimo cercava di afferargli i polpacci trovando, per sua fortuna, solamente la stoffa dei jeans, fino a quando perse l'equilibrio e piombò pesantemente a terra, oramai completamente esausto.
Si stava dando per vinto. Aveva lottato, era riuscito ad assestare dei buoni colpi, ma Attila non era mai crollato, e ora lasciò che gli afferrasse una caviglia, stritolandola tra le sue fauci esattamente come aveva fatto col suo polso e il suo avanbraccio. Presto il cane si sarebbe accorto che la sua gola non costituiva più un bersaglio tanto inviolabile, e l'avrebbe colpito a morte, ne era sicuro: oramai non si trovava più di fronte a un semplice animale domestico inferocito, ma ad una vera e propria bestia assassina, di quelle capaci di anteporre la morte della preda alla loro stessa vita. Si rese conto, in quel momento, che se voleva vivere avrebbe dovuto sposare lo stesso principio, a discapito della sua salute.
Sollevò la mano destra, e la serrò in un pugno, tremando per il dolore, quindi mirò all'orbita vuota di Attila e la colpì con l'intenzione di rompersi il polso, se era necessario, ma di fargli male, più male che poteva. Ci riuscì, ma il dolore che lui stesso sperimentò fu inimmaginabile, e solo il desiderio di finirla gli consentì di rialzarsi, un'ultima volta, afferrando dal vicino ceppo di coltelli il primo che fu a portata della sua mano sinistra, un coltello lungo e affilato, l'ideale per colpire di punta, quindi si lasciò cadere su Attila, cercando di colpirlo alla base del collo.
Ne uscì una lotta serrata, con l'enorme alano che si rifiutava di cadere, agitandosi con una forza fisica immensamente superiore, evitando il colpo letale e spalancando le sue fauci in cerca della gola di Simone, ricoprendolo di saliva e sangue, in una scena degna del migliore film dell'orrore. Passarono così una manciata di secondi che a lui parvero minuti, poi, come se quell'istante prescelto godesse di una diversa concezione dello scorrere del tempo, Simone riuscì a scorgere uno spazio scoperto, esattamente tra le zampe anteriori di Attila, e lì lo colpì, lasciando che il coltello si infilasse fino al manico nel petto del cane, avanzando tra la sua gabbia toracica.
Attila guaì e si contorse, in un lamento che in altre circostanze avrebbe procurato a Simone dei brividi d'angoscia, ma non in quel momento: era il suono lamentoso del vinto, mentre a lui spettava la gloria del vincitore.
Aveva vinto. Attila era caduto.

martedì 22 gennaio 2013

Secondo racconto della serie Zombie e incubi: Occhi gialli


Occhi Gialli

Era oramai qualche anno che Francesco mancava dalla Puglia: 3 per l'esattezza, ovvero dall'anno in cui sua nonna si era ammalata, preludio alla morte che era sopravvenuta, rapida, quello stesso Inverno. Aveva solo 10 anni allora, e da quel momento in poi sua madre non aveva più voluto tornare alla casa materna, considerandola evidentemente troppo carica di ricordi a lei cari; aveva lasciato quindi al padre la responsabilità di programmare le vacanze estive ogni anno, purchè, naturalmente, si svolgessero ben lontano dall'amata regione della sua infanzia.
Non che a Francesco questa decisione dispiacesse: non era mai riuscito davvero a comunicare con sua nonna, la quale in vita era stata troppo tempo sola per coltivare un normale rapporto con il nipote o con il genero residenti al Nord, tanto da trasmettere loro la sgradevole sensazione di essere considerati poco più che sconosciuti indesiderati.
Il piccolo paese nel quale viveva sua nonna era, inoltre, lontano anni luce dalla bella cittadina milanese in cui viveva: era retrogado e scomodo, con tutti quei gradoni intagliati nella roccia, con la mancanza di un supermercato o di un'edicola (che a quell'età Francesco considerava come assolutamente fondamentale), e con tutti quegli anziani, e soprattutto quelle anziane vestite di nero, che lo fermavano per parlargli in una lingua che lui non riusciva a capire. Certo, crescendo questa visione era un po' cambiata, e forse addolcita dal ricordo: ora ciò che un tempo gli era sembrato antiquato gli appariva pittoresco, la scomodità una sfida, e gli anziani seduti sull'uscio della propria casa immancabili componenti di quella realtà.
Quell'anno, infatti, sua madre aveva deciso di tornare, e dopo il lungo viaggio lui era subito fuggito da una casa invasa dalla polvere e chissà quante altre forma di vita tra ragni, scarafaggi e forse perfino ratti: se la sarebbe vista suo padre con loro, pensò, mentre lui sarebbe tornato per cena, a disinfestazione terminata. Aveva con sè l'immancabile tracolla, con dentro portafoglio, cellulare, fazzolettini, caramelle e un coltellino svizzero multiuso, dotato perfino di bussola e luce al led, un neoacquisto di cui andava particolarmente fiero e con il quale avrebbe potuto forzare con facilità, immaginava, i lucchetti posti alle tante porte marcilente di quella che lui aveva per l'appunto ribatezzato come "la Via marcia", dando poi, con la piccola pila incorporata, una rapida occhiata al loro interno.
Era, questo, un proposito che si era prefissato ricordandosi dei burleschi racconti dello Zio Antonio, un cugino della madre che viveva in un altro paese poco distante, ma che da sempre passava il periodo estivo al suo paese natale. Quest'uomo era, nei suoi ricordi, l'unico parente della madre per cui provasse simpatia: poteva avere sui 50, forse 60 anni, era basso, ben piazzato, con degli inconfondibili capelli sempre arruffati, e ogni estate portava per lui un giocattolo o un regalo, rispondendo poi con una marea di frottole alle sue curiosità. Ricordava di avergli chiesto, ormai 4 anni prima, chi abitava in quella via desolata, dove ogni abitazione era chiusa da un lucchetto e da ogni finestra infranta spuntavano rami e foglie, e suo zio gli aveva risposto che quella via un secolo prima era abitata da gran briganti, di quelli che infestavano i boschi derubando chiunque vi si avventurasse, e che ogni casa nascondeva un tesoro lasciato per i propri figli. Aveva aggiunto inoltre che, anche se quegli ultimi se ne erano andati in America dimenticandosi perfino il nome del proprio paese d'origine, doveva stare bene attento e non pensare di poter per questo mettere le mani sui tesori, perchè quelle stesse case erano piene di trabocchetti ancora in funzione e un suo conoscente una volta ci era rimasto secco, ora cadendo in una botola profonda e piena di ratti famelici, ora rimanendo impigliato in una rete imbevuta di veleno, estratto da una pianta che solo da quelle parti si poteva trovare, negli angoli più remoti del cimitero locale. Francesco ricordava di ascoltare per ore questi racconti, non accorgendosi per nulla di quanto fossero in realtà improbabili, nè di come lo Zio Antonio si stesse in realtà divertendo a raccontare delle storielle al bimbetto di città, al ragazzino del Nord che credeva a ogni cosa gli venisse detta, e allo stesso tempo cercasse di tenerlo lontano da tutti quei luoghi in cui ogni bambino, per istinto, sarebbe andato a visitare.
Ora era cresciuto, rendendosi conto che quelle storie volevano solo, allo stesso tempo, affascinarlo e tenerlo lontano da quella via sporca e piena di detriti, con ogni edificio pericolante per via del terremoto di quasi 50 anni prima. Questo adesso lo sapeva, ma allora poteva credere a ogni storia e inoltre era a conoscenza del fatto che in quel paese i briganti c'erano stati, eccome, durante gli anni a ridosso dell'Unità d'Italia, gliel'aveva detto sua mamma, che a sua volta l'aveva studiato a scuola, ed era quindi cosa sicura. Per questo ora voleva aprire almeno una porta, e dare un'occhiata dentro, anche se era sicuro che non avrebbe trovato altro che pochi mobili ammuffiti, con rovi e piante cresciute dalla pavimentazione in terra battuta e proliferate dallo stato di abbandono in cui versavano quelle case da chissà quanti decenni. E naturalmente era sicuro di farcela, con il suo coltellino svizzero, doveva essere una cosa semplicissima, dato che in televisione sembrava riuscirci chiunque, spesso con una semplice forcina per capelli o un fil di ferro.
Scoprì presto che non era così semplice, anzi. Aveva scelto una porticina seminascosta da un pezzo di muro diroccato, e quindi al riparo dallo sguardo di chi poteva passare dall'altro capo della via, una piccola porta marcilenta decorata da un groviglio di vecchie ragnatele e chiusa da una catena arrugginita alla quale era attaccato un lucchetto ridotto anche peggio. Eppure non volle cedere: provò a forzarlo con la lama del coltello, con le varie estremità appuntite e sottili che sembravano ai suoi occhi più che adatte allo scopo, infine con la piccola sega in dotazione provò a tranciare le catene, ma nulla, tutti i suoi sforzi risultarono vani.
Era deluso, e non poteva nasconderlo. Tornò sui suoi passi, risalendo quei gradoni pieni di ciarpame, fino a ritrovarsi all'imbocco della via che lo avrebbe riportato a casa, ma senza nessuna voglia di tornarvi. Sarebbe stato costretto a dare una mano, sicuro, spostando mobili e avviando una monotona processione fino al cassonetto dello sporco per liberarsi di tutto l'antiquame che la nonna aveva testardamente conservato negli anni: sacchi pieni di grano, vasetti di fichi secchi vecchi di decenni, intere scatole piene di vasetti di conserva di pomodoro anch'essi non propriamente databili, e poi stoffe, detersivi e altro ancora. Nei suoi ricordi tutto, in quella casa, era troppo vecchio e poco affidabile, e certo necessitava di una profonda ripulita: proprio per questo lui doveva cercare di rimanerci lontano per il maggior tempo possibile. Suo padre era stato molto comprensivo in questo senso: gli aveva dato ben 10 euro per andare nell'unico luogo adatto a un ragazzo della sua età: il bar del castello. Si trattava di un locale rivolto alla clientela estiva, ovvero a tutte quelle famiglie costituite dai vari emigranti e provenienti dal centro e dal Nord Italia, con la presenza anche di alcuni americani, e che era situato nel solo luogo "moderno" di tutto il paesino, ovvero la sua sommità, dominata da un'alta torre diroccata attorno alla quale si snodava una via pianeggiante, con una piazzetta e quel piccolo bar.
Quel locale rappresentava qualcosa di più di quanto l'insegna potesse indicare: per gli adulti era unicamente in quel luogo che era possibile leggere un giornale o trovare una bibita che non fosse di produzione locale, mentre, per i più piccoli, vi si potevano trovare ben 2 videogiochi, uno sul calcio e l'altro di combattimento. Inoltre, nelle prime ore del pomeriggio, quando la clientela ancora esitava a uscire di casa indugiando nel sonnellino pomeridiano, il gestore del locale consentiva ai ragazzini presenti di giocare qualche ora a calcio nello spiazzo davanti all'ingresso, l'unico punto in tutto il paese dove questo era possibile.
Nonostante tutto questo Francesco non impazziva per quel locale: il gestore gli stava antipatico, i videogiochi con i quali avrebbe potuto intrattenersi sfiguravano in confronto a quelli a cui poteva giocare sul portatile del padre e inoltre ricordava che tra i ragazzi della sua età ce ne era uno, tale Lorenzo da Bari, un ragazzino biondo e lentigginoso di un anno più vecchio di lui che tutti gli anni non faceva altro che prenderlo in giro, per i suoi occhiali o per il suo accento milanese, ed era sicuro che fosse ancora li, come ogni Estate da che aveva memoria, per stare con i nonni che lo trovavano adorabile e lo riempivano di mance, grazie alle quali aveva il monopolio dei comunque indesiderati videogiochi. Per questi e altri motivi aveva deciso di non andare in quel bar, (se non pochi istanti prima di tornare a casa per dissetarsi: il rumore continuo dei grilli nascosti tra i rami degli alberi non facevano altro che aumentare la temperatura percepita, e ben presto avrebbe avuto veramente bisogno di bere qualcosa di fresco) ma di procedere piuttosto verso il secondo obbiettivo di quella sua spedizione: la torre diroccata.
Nelle storie dello Zio Antonio quel vecchio rudere era citato un'infinità di volte: inizialmente lo aveva dipinto come infestato da fantasmi, poi come covo dei briganti, infine aveva insistito con la storia degli scazz' matiedd, una specie di spiritelli maligni delle montagne, vendicativi e dispettosi, che sarebbero vissuti in una fenditura della roccia, alla quale era possibile accedere dalla base della torre. Questa fenditura, spiegava Zio Antonio, era profondissima, e si apriva, un tempo, fino al centro della terra stessa, da dove questi spiritelli provenivano, salvo poi rimanere intrappolati in questo mondo per tormentare chi osava avventurarsi di notte per le vie del castello.
La prima volta che aveva sentito parlare degli scazz' matiedd era solo un bambino di 6, 7 anni al massimo, e ricordò di essere rimasto molto impressionato, e di aver dato la cosa come per certa, confermata, peraltro, dall'effettiva presenza di quella fenditura, come gli aveva confermato suo padre, arrampicatosi alla sommità della collinetta sulla quale sorgeva la torre diroccata. Eppure qualche anno dopo non aveva resistito, e aveva voluto vederla con i suoi occhi, così che una mattina si era inerpicato tra le rocce fino ad arrivare anche lui fino alla base dell'edificio, scoprendo che suo padre aveva detto il vero, che la fenditura c'era, eccome.
Prima di tutto era rimasto stupito di fronte all'imponenza di quei ruderi: solo 2 lati della torre erano ancora in piedi, più parte del terzo, eppure trasmettevano un senso di forza e solennità fuori dal comune, grazie alla larghezza e alla solidità fornita dalle grosse pietre squadrate che li costituivano. Al centro della torre aperta si trovavano cumuli di pietre e cespugli di rovi, ai lati scendeva una piccola stradina impossibile da vedere dall'alto: scendendo da quella parte aveva trovato una specie di avallamento nel terreno, dirimpetto a un muretto fatto di ciottoli poco più alto di un metro, la cui funzione gli era completamente ignota. Dietro di esso, seminascosto dalla rada vegetazione e dalla sterpaglia, si apriva la famosa fenditura nella roccia protagonista dei racconti dello Zio Antonio.
Da pochi metri non sembrava nulla di che: appariva semplicemente come lo spazio vuoto tra 2 grandi massi, e dalla posizione poteva sembare che venisse utilizzata come scarico per i detriti dagli abitanti della torre, se mai era stata davvero abitata e non fosse, piuttosto, servita solamente come un alto punto di segnalazione: lo aveva ipotizzato anche la madre rispondendo come poteva alle sue numerose domande in proposito. Era d'altronde improbabile che la torre servisse a un altro scopo: era situata nel punto più alto del circondario e, nel caso di un attacco nemico, bruciando una catasta di legna dalla sua sommità, tutti gli abitanti delle zone sottostanti avrebbero saputo di un eventuale invasione.
Francesco ricordò di essersi poi avvicinato di pochi passi alla breccia tra le rocce di aver provato una forte sensazione di disagio, e di aver scansato con un filo di apprensione i rami di fico selvatico che gli coprivano la visuale; quello che apparve ai suoi occhi era allo stesso tempo normale e soprannaturale: la fenditura scendeva per 4, 5 metri nella roccia, ma si poteva intuire un proseguio di essa, verso l'interno e in linea orizzontale, al di là del fondo ricoperto da ciottoli e lattine di alluminio, lanciate in quel punto forse proprio da altri ragazzini della sua età giunti in quel posto in esplorazione. E quel buio, quell'incertezza a proposito della profondità di quel pertugio lo turbarono, tanto che si ricordò di essersi voltato e di essere disceso dalla collinetta più in fretta che poteva, sbucciandosi le ginocchia e graffiandosi le braccia per la gran fretta, come se avesse alle spalle uno stuolo di quegli spiritelli delle montagne dal nome tanto difficile da pronunciare.
Prima di partire per la Puglia dopo quei 3 anni di assenza Francesco si era proposto di verificare quanto veramente fosse lungo quel passaggio: se era di centinaia di metri, come sosteneva suo Zio, o nulla di più che un pertugio deserto e ampio meno di qualche metro, come immaginava lui. Ora che aveva sondato la sua incapacità di forzare un vecchio lucchetto non gli rimaneva altro da fare che verificare questa sua teoria; di certo lui, a spiritelli, goblin o demonietti che fossero, non credeva affatto, diversamente da quando era un bambino e passava in quel posto ogni estate. Era davvero facile, pensò mentre si inerpicava tra il cumulo di terra e rocce, ingannare un bambino con tutte quelle assurdità, e rimpiangeva di essere stato tanto suggestionabile da piccolo, ma ora era cresciuto, tutto era diverso, e stabilire con certezza che il rifugio degli scazz' matiedd fosse solo una leggenda sarebbe servito a lasciarsi definitivamente alle spalle quel periodo della sua vita: si sentiva grande, oramai, tra poco più di un anno sarebbe andato alle superiori, e i suoi gli avrebbero comprato un motorino. Erano finiti gli anni in cui credeva alle storielle, e non mancava mai di controllare con lo sguardo ogni angolo della sua stanza prima di spegnere la luce. Basta storielle. Basta frottole. Avrebbe messo fine in prima persona a tutto quanto, grazie alle sue capacità di scalatore e alla sua torcia, e avrebbe conservato un sasso raccolto sul fondo del "dirupo" come ricordo.
Finalmente era giunto alla sommità della collinetta: tutto era esattamente come lo ricordava, con la vegetazione abbondante ma rinsecchita, con le ampie pareti di pietre squadrate e il sentierino che conduceva all'avallamento con il muretto di ciottoli. Subito cercò con lo sguardo la fenditura tra le rocce, accorgendosi che la vegetazione la nascondeva assai meglio di qualche anno prima, anche se non fu un problema farsi largo fino ad arrivare al suo limite, fino ad osservarne il fondo, quando per un momento indugiò nei suoi propositi. Ma non poteva tirarsi indietro: se l'era promesso, e in fondo non si trattava di nulla di speciale, solo scendere, controllare e risalire. Si fece forza, e inizio a calarsi nel piccolo crepaccio, un'operazione tutt'altro che complessa data la quantità di appigli che le rocce erano in grado di fornirgli.
Quando i suoi piedi toccarono il fondo avvertì immediatamente il ripresentarsi di quella sensazione di disagio avvertita solo qualche anno prima: a dar retta a Zio Antonio in quel momento si trovava dirimpetto alla tana dei diavoletti delle montagne, circondato da pareti di roccia alti più di 3 metri. Cercò di non pensarci è avanzò in direzione del passaggio nero che aveva notato in precedenza, delle dimensioni della tana di un animale selvatico, pensò, anche se nessun animale poteva dormire li dentro: non avrebbe potuto scalare le pareti del dirupo, e non avrebbe trovato nulla in quei pochi metri.
Si abbassò leggermente fino ad afferrare il bordo muschioso della roccia, e gettò un'occhiata all'interno, con il cuore che batteva forte. Non vide nulla, nulla al di là di un metro di terriccio odoroso di muffa e avvolto in un'ombra buia come la notte, nonostante solamente pochi metri più in là il sole della Puglia fosse quasi a picco, e il caldo insopportabile. Francesco frugò rapidamente nel marsupio a tracolla, estraendo il suo coltellino svizzero, non esitando un istante ad azionarne la piccola luce al led, anche se il risultato fu molto minore alle attese: il fascio di luce non aggiungeva che circa un metro alla sua visuale, e non permettendogli di vedere il fondo. Eppure era sicuro, non c'erano dubbi, quella piccola grotta doveva finire dopo pochi metri, il fondo doveva essere lì a un palmo, era cosa certa.
Fu allora che decise di avanzare, anche di poco, all'interno: doveva verificare la sua teoria. Abbassò il capo nelle spalle, inarcò la schiena, e puntando la torcia davanti a sè entrò nella grotta, tossendo per l'esalazione di quell'aria tanto pungente e odorosa. Con stupore constatò che l'interno era molto più largo di quanto sembrasse dall'esterno e, pur con qualche difficoltà, riusciva a muoversi abbastanza liberamente. Avanzò quindi di qualche passo, sicuro di arrivare al limitate del pertugio, eppure il paesaggio illuminato dall'evanescente fascio di luce non cambiava: terriccio, muschio, funghi e sassi.
All'improvviso, dopo aver percorso almeno 5 metri in quella specie di tunnel, Francesco notò un luccichio davanti a sè, sul terreno. Incuriosito vi indirizzò quanta più luce possibile, anche se non servì a molto: era impossibile capire di che si trattasse senza avvicinarsi ulteriormente. Avanzò di un altro metro, sforzandosi di distingure quel bagliore prima di allungare la propria mano per afferrarlo, infine si decise: con suo grande stupore si rese conto di stringere tra le mani una moneta antica, raffigurante l'effige di un uomo sconosciuto, in un metallo che, sperava di non sbagliarsi, doveva essere argento, e accanto a lei, poco più in là, ce ne era un'altra, perfettamente identica. Subito pensò alle tante storie sui briganti, e immaginò che, se davvero avevano infestato quelle terre, allora la grotta in cui si trovava doveva rappresentare un punto più che ideale per nascondere i loro tesori, circondata com'era da leggende di spiritelli dispettosi e di spiriti guardiani della vecchia rocca.
Aveva trovato solo un paio di monete, era vero, ma il tesoro dei briganti doveva essere li, non nelle vecchie case chiuse da lucchetti arrugginiti, ma nella tana degli scazz' matiedd, dalla quale chiunque abitante del posto si sarebbe tenuto alla larga, ma lui no, lui non era di quelle parti, e non credeva a quelle frottole, non più. La presenza di quelle monete non poteva essere un caso, ce ne dovevano essere delle altre, pensò forse gettate alla rinfusa verso il fondo, che non poteva essere lontano, o nascoste in un piccolo forziere, insieme magari a qualche arma e una botte di liquore.
Se una parte di Francesco aveva paura di proseguire, allora era ridotta a un grido sommesso, alla protesta di un singolo di fronte al tumulto della folla. Infilandosi la moneta nella tracolla Francesco proseguì, puntando la sua piccola torcia in ogni anfratto e sotto ogni sasso, rimuovendo con le sue mani strati e strati di muschio, avanzando lentamente, instancabile nella ricerca. Dopo pochi metri le sue fatiche furono ricompensate: trovò un sacchetto lacero di cuoio appoggiato a un grosso sasso, con all'interno altre 6 o 7 monete, mentre vicino ad esso c'era una piccola fiaschetta, che non osò aprire ma non esitò a nascondere nel marsupio.
Era al settimo cielo: aveva trovato il tesoro dei briganti. Non poteva fermarsi, non riusciva a smettere di cercare, chissà cos'altro avrebbe potuto trovare, ma non doveva trascurare nulla, nemmeno un centimetro di quella grotta, così che avanzò freneticamente per almeno altri 5 metri, anche più, senza accorgersene minimamente, fermandosi solo quando credette di udire un rumore davanti a sè. Di cosa si trattasse non poteva dirlo, ma lo impensierì il fatto che potesse trattarsi di un qualche cedimento nella roccia, dovuto al gran casino che stava facendo, così per un istante si immobilizzò, rimanendo in ascolto. Per alcuni istanti non udì assolutamente nulla, poi ancora un cedimento, come se alcuni pezzetti di roccia si fossero staccati dalle pareti della grotta, e poi ancora, stavolta a pochi passi da dove si trovava lui.
Si rese conto solo in quel momento di quanto fosse penetrato all'interno del pertugio, inizialmente stimato in poco più che qualche metro. Sopra di sè doveva avere tonnellate di rocce: se il tunnel fosse crollato per lui non ci sarebbe stato scampo. Si accorse anche di essere immerso nel buio più completo, esclusion fatta per il piccolo gadget del suo coltellino svizzero che non gli forniva più di un metro di visibilità. Fu allora che avvertì la fine di quella scarica di adrenalina che l'aveva condotto fino a lì, e desidero con ogni sua forza di tornare indietro e uscire da quel tunnel, fino a ritrovare nuovamente il sole sopra la sua testa.
Fece per voltarsi, rinunciando al suo iniziale proposito di esplorare fino in fondo la grotta, quando vide per la seconda volta un luccichio davanti a sè, e la possibilità di aggiungere altri pezzi al tesoro immediatamente prevalse sulla paura, tanto che si decise a proseguire ancora, almeno fino a raggiungere quell'ultimo bagliore illuminato dalla sua piccola torcia, quello e null'altro, poi sarebbe tornato indietro, per poi tornare, l'indomani stesso si prefissò, con una fonte di luce decisamente maggiore e più affidabile, a caccia di tesori.
Dopo un solo passo in avanti Francesco si accorse che c'era qualcosa che non andava in quel luccichio: non era al livello del terenno, bensì almeno una decina di centimetri più in alto, come se la moneta, perchè di quello doveva trattarsi, fosse adagiata su una roccia, o, piuttosto, sospesa a mezzaria. Cercò di direzionare al meglio il debole fascio di luce in quella direzione, ed ecco apparire un secondo luccichio, a pochi centimetri di distanza dal primo, e poi altri 2 in parte ad essi, sempre alla stessa equidistanza tra loro. Un brivido percorse Francesco: erano occhi a fissarlo, occhi di animali, gli stessi che avevano procurato quei rumori poco prima. Tutto avvenne molto rapidamente, eppure Francesco riuscì a elaborare varie teorie su a chi potessero appartenere: ratti, pensò inizialmente, oppure tassi, o faine, ogni specie di animale in cui fosse possibile imbattersi frugando in una grotta accessibile solo attraverso un dirupo, ma quando quegli occhi si mossero capì che non poteva trattarsi di semplici roditori.
Occhi gialli sbarravano il suo cammino. Una doppia coppia di occhi molto più grandi di come apparivano solo mezzo metro più indietro, 4 pupille sottili attorniate da un'iride innaturalmente dorata fissi su di lui, il resto del corpo invisibile, protetto dall'oscurità.
Il coltellino multiuso gli cadde di mano, mentre un urlo gli morì in gola. Non vedeva più nulla, e in preda al panico per qualcosa che non riconosceva, ma che lo terrorizzava, cercò di voltarsi; l'operazione, già complessa in una situazione normale per uno spazio tanto angusto, gli risultò quasi impossibile data la sua agitazione, e finì per strisciare il braccio contro la parete rocciosa, causandosi numerose e dolorose escoriazioni. Naturalmente non vi badò affatto, provò semplicemente a muovere le sue gambe il più velocemente possibile, ma si accorse di non averne il controllo: cadde e prese ad avanzare carponi, affondando le mani nel terriccio, affrentandosi più che poteva per riuscire finalmente a rivedere la luce, la sola cosa alla quale in quel momento riuscisse a pensare.
Mancava oramai solo qualche metro all'agognata uscita della grotta, Francesco già riusciva a sentire la differenza di consistenza nell'aria che inalava, quando qualcosa gli afferrò la caviglia, qualcosa di molto simile a una mano, a una piccola mano ossuta. Questa volta Francesco non si trattenne e urlò, urlò con quanto fiato aveva in gola, e tanto bastò perchè la mano allentasse la sua presa, e lui riuscisse a divincolarsi, raggiungendo in un lampo l'uscita della grotta.
Non si volse indietro. Si arrampicò come una furia fino alla base della torre, e poi ridiscese il cumulo di massi atterrando malamente in strada, rischiando una storta alla caviglia: solo allora si voltò indietro.
Non vide nulla. Nessuna creatura lo stava inseguendo. Con il cuore sul punto di esplodere dentro alla gabbia toracica finalmente il suo sguardo cadde sul suo braccio: niente di serio, pensò, mentre rifletteva su cosa avrebbe potuto raccontare ai suoi genitori per giustificarlo. Si accorse subito di quanto fosse strano che quella costituisse la sua prima preoccupazione: aveva incontrato 2 creature che non dovevano esistere, 2 diavoletti delle montagne, quelli che gli abitanti del luogo chiamavano scazz' matiedd -cos'altro erano altrimenti?- e ora si preoccupava di un braccio graffiato da giustificare tornando a casa. Ridicolo.
Fu allora che riflettè veramente sul fatto, e sulle sue conseguenze: avrebbe dovuto dirlo a qualcuno? E a chi? Ai suoi genitori forse? E sarebbe veramente stato creduto? No, immaginò, decisamente no. Si andò a sedere su una delle panchine ricavate dalla roccia stessa poste ai lati della strada, trascinando leggermente il piede con cui era atterrato male, controllò che non ci fosse in giro nessuno, e quindi aprì il suo marsupio: le monete che aveva raccolto erano decisamente vere, e anche la fiaschetta per liquori, così come autentiche dovevano essere le creature nascoste in quel tunnel: non poteva essersele immaginate, non poteva averle confuse con qualsivoglia roditore, no. E poi quegli occhi gialli, rilucenti in modo tanto innaturale.
Sapeva di non essere pazzo, ma volle ugualmente controllarsi la caviglia: aveva distintamente sentito qualcosa afferrarla con forza, e avrebbero dovuto esserci dei segni, se non se lo era sognato. Abbassò il calzino destro, e con orrore si accorse che dei segni c'erano, eccome: la forma rossa di 3 lunghe dita.
Non lo avrebbe raccontato a nessuno, mai. Respirò profondamente, raccolse le energie e si alzò dalla panchina, con tutta l'intenzione di dirigersi a casa e dimenticarsi di quanto era accaduto, di quanto aveva visto e sentito, anche se sapeva che non sarebbe stato facile, che non sarebbe stato possibile.
Percorse con precisione l'intricato labirinto di viottoli che conducevano a casa, balbettando una scusa banale per le condizioni in cui la madre trovò il suo braccio, quindi si offrì di aiutare i genitori nell'immane opera di pulizia, nonostante questi ultimi non approvassero che si sforzasse tanto con quel braccio malandato, ma lui il dolore non lo sentiva neppure. Voleva tenersi occupato, voleva allontanare il pensiero di quegli occhi gialli, di quella mano forte e ossuta, voleva allontanare la paura.
Terminati i lavori arrivò l'ora di cena, e si tuffò senza ritegno sulla catasta di pizza appena sfornata, quella pizza alta al pomodoro che solo in quel posto sapevano fare così, ottenendo perfino il permesso dal padre di bere mezzo bicchiere di vino, allungato con l'acqua, il vino novello di quelle zone appena comprato dal vicino di casa, e tanto bastò per annebbiargli un po' la mente, esattamente quello che voleva. Non esisteva, in effetti, una scusa migliore per evitare domande più approfondite su quei graffi che starsene in disparte sul divano, preda di un leggero mal di testa.
Non aveva alcuna voglia di fare conversazione, e dopo il lieve malore finse grande stanchezza, nè i suoi genitori, esausti, tardarono a raggiungere il letto, per il meritato riposo, lasciandolo solo, immerso nei suoi pensieri.
Presto si accorse di non riuscire a dormire. La casa vera e propria si trovava solo su un piano, quello superiore, mentre quello inferiore, un tempo la stalla per gli asini e i conigli dei suoi nonni, ora era ridotta a semplice deposito. L'abitazione era dunque composta da un solo piano, e sole 3 stanze: una camera da letto nella quale dormivano i genitori, un piccolo bagno e un grande stanzone principale, che riuniva in sè le funzioni di sala sul lato destro e cucina su quello sinistro, ma anche di stanza da letto, con la presenza del divanetto allungabile su cui si trovava. Quest'ultimo era situato sullo stesso lato dello stretto balcone, reso inutilizzabile dalla sua pavimentazione cedevole, le cui ante i genitori avevano lasciato spalancate, per far girare un po' d'aria almeno la prima sera, dicevano.
Quel balcone non gli dava tranquillita, anzi, era per Francesco motivo d'insonnia. Ogni fruscio, ogni rumore che la notte portava co sè lo turbavano nel profondo, mentre a più riprese immaginava figure perverse e agili correre veloci tra le strade, cercandolo, lui che aveva violato il loro segreto, lui che sapeva della loro esistenza. Passarono 10 minuti, poi 20, mezzora infine. Questo pensiero non riusciva a dargli pace, anzi si accresceva di dettagli: e se fossero passati dal finestrino del bagno? Oppure che dire della botola dietro la porta d'ingresso, che collegava la cantina alla casa? Immaginò orde di quelle creature arrampicarsi, silenziose, riversandosi infine ai piedi e ai lati del suo letto, pronte ad assalirlo.
Pur trovandolo assurdo, Francesco decise di alzarsi dal suo letto e, senza indossare delle ciabatte per non fare rumore, chiuse la finestrella del bagno, e sistemò un pesante scatolone pieno di cose da buttare sopra la botola accanto all'ingresso, infine chiuse le ante del balcone, non mancando di scrutare in ogni direzione lungo le strade deserte e oscure, nell'unico luogo, pensò, in cui ancora non esisteva l'illuminazione notturna in ogni via del paese.
Non appena si coricò si sentì più sicuro, molto più sicuro, e stanco, tremendamente stanco. Si addormentò, profondamente, in capo a pochi minuti, salvo poi svegliarsi anzitempo, nel cuore della notte.
Sentì un brivido d'aria fresca sulla schiena, si voltò e si accorse che le ante del balcone erano nuovamente aperte: forse i suoi genitori, accaldati, le avevano rimesse nello stesso stato in cui le avevano lasciate, domandandosi per quale motivo il figlio le avesse chiuse, dato che normalmente era il primo a lamentarsi per il caldo, e in quella casa non esistevano nè climatizzatori nè altro. Per un momento pensò di alzarsi e richiuderle, ma poi decise di lasciar perdere, e di riaddormentarsi velocemente, poi si accorse di sentirsi a disagio. Di sentirsi osservato.
Provò l'istinto di balzare a sedere sul letto volgere il suo sguardo verso il balcone, ma si sforzò, anzi si impose di non farlo, come se temesse di trovare qualcosa, o qualcuno, intento a studiarlo. Passarono alcuni minuti e la sensazione non diminuì affatto, anzi: ora era convinto di avere 2 paia di occhi puntati sulla sua schiena, una sensazione molto, molto sgradevole.
Si fece coraggio, e si voltò, in modo tale da riuscire a scorgere il balcone, ma anche di sembrare addormentato, sbirciando con un solo occhio socchiuso.
Dapprima non vide nulla di insolito, solo la luna comparire nell'angolo più lontano del rettangolo di cielo a disposizione del suo sguardo. Poi quell'unica fonte di luce rese visibili quelle 2 forme, aggrappate come panni stesi alla ringhiera metallica del balcone: 2 esseri che a Francesco parvero ripugnanti eppure indistinti, sgraziati eppure magnetici nei loro occhi gialli dello stesso colore della luna.
Non appena si accorsero di essere stati scoperte, le 2 creature si staccarono dalla loro presa, atterrarono sul cemento cedevole del balcone ed avanzarono all'interno della stanza, piano, con le lunghe braccia raschianti per terra per effetto dei tozzi arti inferiori. Francesco angora non riusciva a metterle perfettamente a fuoco, ma avrebbe potuto giurare che assomigliassero alle vecchie che gli chiedevano come stava e dove andava quando lo vedevano gironzolare, solo erano molto più brutti, e con il corpo simile a quello di una rana, tutti verdognoli con piedi enormi, mani con 3 dita e quegli occhi gialli e sporgenti.
Francesco non ipotizzò nemmeno nè di urlare nè di muoversi. Forse perchè impietrito dalla paura, forse perchè una parte di sè si era convinta che si trattasse solo di un incubo, da cui era impossibile fuggire, ma in seguito gli piacque pensare di essere rimasto immobile perchè sapeva di doverlo fare, e che quella costituisse l'unica chiave per la sua salvezza.
Gli esseri avanzarono fino ai piedi del suo letto, ma non si avvicinarono ulteriormente: se lo avessero fatto, o se fossero saliti sopra al letto, allora probabilmente Francesco sarebbe davvero morto di paura.
Si osservarono l'un l'altro, poi intorno a sè, come se stessero cercando qualcosa, infine uno dei 2 trovò il marsupio di Francesco appeso a una sedia, e lo afferrò, scuotendolo lievemente fino a sentire il tintinnio delle monete. Anche l'altro lo raggiunse, e insieme emisero una specie di bassa risata, rivolgendogli un'occhiata che lo fece rabbrividire. Quello dei 2 che aveva trovato il marsupio lo lacerò con una delle unghie affilate delle sue dita, estrasse il sacchetto lacero contenente le monete trovate nel pomeriggio e la fiaschetta, infilandoseli in una sorta di gonnellino che Francesco fino a quel momento non aveva ancora notato, e poi sorrise, si, sorrise, mostrando una fila di denti gialli, mentre con un balzo si gettò dal balcone aperto, scomparendo nella notte. L'altro afferrò a sua volta il marsupio, estraendone il restante contenuto: portafogli, cellulare, fazzolettini e caramelle, e uno ad uno infilò ogni oggetto nel suo gonnellino lacero. Voleva fargli sapere che quegli oggetti ora gli appartenevano, prendendoli singolarmente, con una lentezza irritante: lui aveva osato rubare il suo tesoro, ora avrebbe rubato tutto ciò che gli apparteneva.
Quando ebbe finito piazzò il suo sguardo su quello di Francesco, osservandolo a lungo con quei suoi occhi gialli al contempo feroci e inespressivi, poi si voltò e fuggì via, verso le montagne a cui apparteneva, lontano, ma mai abbastanza da abbandonare i suoi incubi.